di Amerigo Ciervo
Ad Orgosolo, un paio di sere fa, ho pensato a un paio di cose che mi piacerebbe condividere con qualche amico lettore, soprattutto in questi giorni agostani, quando sotto i nostri cieli, tra una sagra e una fetta d’anguria, animosamente si dibatte, a sbirciare sui social, di cultura e spettacolo. Attraversare Orgosolo, scorrendo lungo i murales che ti si parano davanti ad ogni passo, equivale a un ripasso di tutta la storia politica e sociale del mondo degli ultimi cento anni. Alzi gli occhi e ti ritrovi il Supramonte, con la rudezza essenziale delle rocce e le macchie dei ginepri. Se, poi, ci si allunga fino al mare di Dorgali, è possibile attraversare cale con luce e colori che mai avevi visto prima.
Eravamo nel famoso paese barbaricino per partecipare a un mini festival, intitolato Sero di Istiu, insieme ai nostri cari amici Maurizio, Franco, Cosimo e Antonio del Tenore Murales e al gruppo Raichinas de ballu. Si dice che l’ospite è sacro a Zeus, ma ho idea che l’isola dei nuraghe debba essere una sorta di succursale dell’Olimpo e ben si comprende come due autentiche icone del Novecento italiano, Gigi Riva-Rombodituono e Fabrizio De André abbiano scelto di vivere in Sardegna.
Dunque, dopo le nostre esibizioni, principiò su ballu tundu. Un cerchio si andava via via allargando, naturalmente inclusivo ma, nel contempo, fortemente identitario. I ballerini si tenevano strettamente legati tra di loro, con quella rigida e aristocratica compostezza della parte superiore del corpo, paragonata da qualche studioso ai bronzetti nuragici, senza distinzione di genere o di età: anziane, con la loro veste nera, plissettata, e giovanissimi, in jeans e t-shirt, tutti insieme a danzare, per ore, trascinati dai ritmi seducenti dei suonatori o rapiti dalle armonie ancestrali dei cantadores. Ritrovarsi in una situazione simile significa vivere esperienze emozionanti e uniche. Lontane, per lo spazio, ma soprattutto per il tempo, da quelle, artificiosamente costruite, e, quindi, sostanzialmente finte, delle nostre “non-feste”, giusto per parafrasare Marc Augé.
Dunque, che fare? Quod vides perisse perditum ducas: ciò che vedi perso, consideralo definitivamente perduto. Città spettacolo, così come è stata vissuta e, da molti, non da tutti, amata, è morta. E l’abbiamo uccisa noi. Ci sono senza dubbio responsabilità politiche precise, ma la città, nella sua interezza, non l’ha probabilmente mai percepita come il “momento forte” della propria comunità. Quanto, piuttosto, come qualcosa che veniva esibita, da una parte politica, quella che in quel momento era maggioranza, contro un’altra. Sicché l’opposizione “nicchia/nazional-popolare” – distinzione ambigua e, in buona sostanza, incomprensibile -, su cui si è sviluppato (e continua a svilupparsi) il dibattito non è servita ad altro che a questo. Una polemica inconsistente, poggiata sul nulla. Per dire: uno spettacolo come quello di Ruggero Cappuccio su Paolo Borsellino, nato, qualche decennio fa, a Benevento e andato in onda, in seconda serata su Rai Uno, è di nicchia o è nazional-popolare? Per me, rimane un esempio alto di teatro civile, un momento necessario alla comunità per poter dibattere sul senso dello stato e delle sue istituzioni fondamentali, un tassello prezioso per l’inderogabile e improrogabile costruzione di quella “religione civile” di cui tanto bisogniamo.
Chi avrebbe dovuto partecipare? Certamente chi avesse desiderato ritrovare risposte in linea con il proprio vissuto da quell’offerta spettacolare. Si dirà: sono poche le richieste in tal senso. Ma ciò non significa che si debba solo, sempre e soltanto, accondiscendere, arrendendosi, sempre e comunque, alle domande più facili. Da adolescente, in quinta ginnasio, avrei preferito mille volte giocare a calcio piuttosto che leggere I promessi sposi. Ma il “dovere” della frequenza e, soprattutto, la bravura del mio professore di italiano, don Callisto, mi accompagnarono alla convinzione, mai più abbandonata, che la lettura delle pagine manzoniane avrebbe potuto offrirmi gioie ed emozioni non banali, più preziose, alla fine, di un panino con la porchetta (che, tra l’altro, io molto gradisco).
Credo che ciò valga anche per il teatro, per la musica, per l’arte. La qualità del mio docente vale la qualità delle proposte. La costruzione di una coscienza etica, di un gusto estetico, di una desiderante apertura verso le produzioni più alte della cultura degli uomini e delle donne che ci hanno preceduto e che, in questo tempo, lavorano in tal senso, non è un’operazione semplice. Richiede, viceversa, pazienza, costanza, serietà, lungimiranza. E’ come a scuola: la partita si gioca sui tempi lunghi. Altro che prove Invalsi e pinzellacchere simili, buone solo per potersi dare un tono quando manca il necessario. Anche per la cultura vale la celebre frase di Alcide De Gasperi per il quale se un politico guarda alle prossime elezioni, lo statista è tale se guarda alle generazioni future, facendo, con coraggio, anche scelte controcorrente.
Ad Orgosolo m’è venuto, inoltre, da pensare alla straordinaria nobiltà del nostro paese, alle sue millanta diversità espressive e ai prodotti sublimi di un’agricoltura e di una pastorizia millenarie, che a noi ci vengono offerti, lungo tutto lo “scarpone italiano”. Per esempio, il casu marzu, prodotto da Franco Corrias, che abbiamo mangiato insieme al pane carasau. Forse, mi son detto, basterebbe solo sciogliere il viluppo di una matassa politica, in senso ampio, che s’è enormemente intricata. Se ci riuscissimo, saremmo davvero una comunità straordinaria. E tuttavia, pur prendendo atto che, forse, vale anche per i popoli la frase che, a sentire Livio, il comandante Maarbale rivolse ad Annibale (“non tutto gli dei diedero allo stesso uomo”), non dovremo perdere la speranza di vivere per migliorarci. Scherzando, ma non troppo, si dovrà pensare a una Città spettacolo, la vendetta. Con l’idea di dividere il corpo dallo spirito. Non per adesione alla filosofia di Cartesio, ma perché, come ad Orgosolo, dove su ballu tondu è il momento in cui la comunità mostra la compostezza e il rigore della sua cultura, l’evento (o gli eventi) – teatrali, musicali, artistici, letterari che siano – scelti per rappresentare al meglio lo spirito di Benevento e della sua nobiltà, esigono compostezza e rigore. A mangiare e a bere, bene, ci penseremo dopo. E vivremo un piacere doppio.