di Antonio Medici
“Ho 58 anni e sono della vecchia scuola” dice Mauro Uliassi, durante una delle cortesi soste al tavolo. Il tono è greve e se la delicatezza della voce sommessa pare reclamare il riguardo per una vecchiaia che poi tale non è, il senso della frase suona come una intimazione saggia a recuperare attenzione, in questi tempi di clamore disturbante, all’essenziale, ai sapori delle pietanze.
Non c’è, difatti, narrazione qui a Senigallia, in questo vecchio chiosco incuneato in fondo al lungomare, nella zona centrale della cittadina. Struttura scarna per una sala che, invece, abbraccia con la suggestione del mare (alcuni tavoli sono allestiti lungo una veranda hemingueiana ed un paio addirittura sulla spiaggia), il calore di librerie affollate di testi e la fragile bellezza di sculture vitree ora trasparenti, ora bianche, ora rosse. Colori e non colori che assurgono ad allegorie: trasparenza come a dire senza filtri, senza sovrappiù di racconti e rituali; bianco come uno sfondo neutro su cui è destinato a brillare solo il talento dello chef e anche come il rigore affabile del servizio e del sorriso di Catia, la sorella di Mauro, elegante regina della sala; rosso come la passione che indirizza la vita e la creatività dello chef, ma anche come la terra e dunque le origini. “Settant’anni fa qui, lungo il mare, abitavano persone umili che nel cortile dietro casa coltivavano l’orto e allevavano animali da cortile, qualche vacca, l’immancabile maiale. La commistione tra carne e pesce, quindi, c’è stata sempre”. La proposta di Uliassi sposa questa ambivalenza originaria della sua terra e oscilla tra piatti di mare e di terra, essenzialmente di selvaggina.
L’indicazione delle pietanze in menù è secca, senza lunghe descrizioni che includano modalità di cottura o gli ingredienti minimi dei fondi o la provenienza o addirittura qualche certificazione di presunta qualità. “Come è cucinato un piatto interessa me, non l’ospite”. Come dargli torto nell’invito implicito anon lasciarsi distrarre da informazioni inutili e magari manco chiare e comprensibili sino in fondo. Ben sarebbe, a pensarci, dividere i ristoranti in due gruppi: quelli, cui attribuire una penalizzazione, che declamano in menù le lente cotture, le paste di questo o quel pastaio, i presidi Slow Food, il chilometro zero, il chilometro illimitato e via discorrendo con la cianfrusaglia di parole ampollose, e quelli che, invece, al pari di ben fatti titoli di giornale destinati ad annunciare notizie, preludono il piatto con parole sobrie.
Gli appetizer espongono in tre attimi il tema della cucina: wafer di foie gras, finta oliva ascolana al cuore di mandorla e un sublime crostino con burro, alice cruda (trasparente tanto è ben dissanguata) e tartufo.
Anche il pane e burro è un misto di terra e mare: pani di fogge, forme, spezie e semi diversi accompagnati da burro di mare (realizzato con ostriche).
Il fondente di patate con tartufo è un esercizio alla trave dell’ordinario eseguito con equilibrio e ed armonia perfetti, senza ondeggiamenti nel banale o nell’eccessivo. Una piroetta leggiadra rende sublime anche l’attrezzo (gli ingredienti) più scontato.
Losanghe sottilissime di pane croccante racchiudono saporite triglie, accompagnate da una fresca salsa di prezzemolo e colatura di alici con filetti di rabarbaro. Un abbinamento più che convincente, un antipasto che si mangerebbe per tutto il pasto.
Il ristorante recentemente classificato al n. 37 della TOP 100 mondiale ha il coraggio di proporre tra i primi le trippe di baccalà con mezzi rigatoni, cacio di fossa e pepe. Il menù non denuncia, ma il commensale scopre ciuffetti di crema dolce di cipolla poggiati qui è lì sulla pasta. Piatto intenso e immenso per consistenze, sapori, contrapposizioni. Un passo di una composizione di Rachmaninov. Nei pregiati e precisissimi cappelletti alla moda di zia Elena spicca l’aroma di agrumato giustapposto all’intensità del ripieno.
Tra i secondi il rombo selvatico porchettato con lardo Spigaroli è una morbida e languida delizia cui le murici callose apportano una ricchezza tattile oltre che gustativa, e il finocchietto selvatico, richiamo ancora una volta di terra in mezzo al mare, a stuzzicare come un morsetto in un gioco sexy.
E’ a terra, però, che bisogna tornare per appagarsi di piacere: l’oca laccata al tè di ciliegie, foie gras, mirtilli, lamponi e ananas, proposta, quest’ultima, ai quatto angoli del piatto, in morbidi e dolci cubetti marinati in lime e menta, è un inno al piacere divino che il palato può regalare quando lambito da preparazioni deifiche dello chef. Andrebbe inaugurata una cattedra di teologia culinaria per indagare la profondità e complessità di questo piatto e tutte le sue sfumature di dolce e amaro, sublimate in un sapore unico in cui si riconosce la Verità.
Tra terra e mare, insomma, si finisce per toccare il cielo.
Si chiude con dolci deliziosi su cui, in questo periodo, domina la granita di fragole con meringhe al cardamomo.
Menù degustazione € 135.
A la carte € 100/120.
Uliassi
Banchina di levante, 6 – Senigallia (AN)
Tel. 071 65463
www.uliassi.it