di Amerigo Ciervo
Qualche giorno fa, il sette luglio scorso, alcuni di noi si sono ricordati del quarantesimo anniversario del debutto di Gatta Cenerentola. Chi ama il teatro sa che il nostro paese deve molto a Roberto De Simone, perché, con il suo capolavoro – mai più uguagliato dalle sue opere successive, tutte connotate di raffinatezza pregiata e con un’unica, ben riconoscibile, cifra stilistica e, tuttavia, nessuna in grado di arrivare ai livelli della Gatta – ha genialmente indicato al teatro italiano una nuova strada possibile, liberando, dal recinto del pittoresco e del folkloristico da strapaese, in cui era stata rinchiusa dal fascismo e dall’Italia del primo centrismo democristiano, la grande cultura popolare napoletana e campana. Prima di lui, altri straordinari uomini di cultura e di spettacolo avevano già seriamente lavorato sui materiali della cultura popolare. Una sera, a cena da Nunzia, Michele Straniero – che partecipava a un nostro lavoro, durante la “Città spettacolo” del 1989 (quella dedicata agli altri anniversari) – ci fece scompisciare con il racconto della disavventura spoletina capitatagli, nel giugno del 1964, per lo spettacolo Bella ciao, un programma di canzoni popolari italiane di Filippo Crivelli, Franco Fortini e Roberto Leydi, con lui, poverino, fermato dalla polizia per aver cantato O Gorizia, tu sei maledetta. Spettacolo mitico, anche quello. Ma se non ci fosse stato il genio napoletano della Pignasecca, quella strada non sarebbe mai stata individuata e, successivamente, percorsa.
Spero vi siate segnati il titolo dell’opera e il luogo della prima, perché, probabilmente, un certo legame con il dibattito che, in questi giorni, si è sviluppato, in città, ce l’hanno. Dibattito che a me ricorda – nessuno si offenda, per favore – la lettera che Tommasino Cupiello legge al padre e allo zio, nel corso del secondo atto, mi sembra, del capolavoro edoardiano, con il consueto contorno di piatti rotti e di inviti rivolti, da Luca al fratello Pasquale, di soprassedere sulla famosa “lista della salute”.
Nel 1988, avemmo l’onore di partecipare, con la nostra Quaraesima è fernuta, alla seconda edizione dedicata, dal demiurgo Gregoretti, ai dialetti (le cosiddette “lingue rinascenti”). Nell’introduzione al libro, nato dallo spettacolo, dedicato, in particolar modo, alle scuole e che presentammo in un convegno, al Teatro San Nicola, con la compianta Domenica Zanin, Franca Sibilio, Luigi Parente e lo stesso Michele Straniero scrivevamo: “S’è fatta rigogliosa, anche nella nostra regione, quella strana pianta di operatori e di assessori alla cultura che raggiungono il massimo del piacere organizzando la celeberrima “sagra”: agnello, salsiccia, prosciutto e melone, cecatielli, pasta e fagioli e via mangiando. (…) Tra lo stand destinato alla friggitoria (mediamente affollato) e quello che dispensa birre e altre bevande (di solito affollatissimo) si dispiega l’esibizione del gruppo folkloristico. Ma il piatto forte è la tavola rotonda, a cui partecipano esperti del settore che, con una serietà degna di miglior causa, dibattono su temi fondamentali: “Il ruolo della pasta e fagioli nell’attuale momento storico” oppure “Il cecatiello alle soglie del 1992: bilanci e prospettive.”
Sono passati quasi trent’anni e la realtà, come spesso capita in Italia, supera di gran lunga la nostra divertita fantasia novecentesca. Si dice: quello vuole la “ggente” (attenzione:con due g). Sicché sarebbe opportuno una riflessione veloce sul senso della parola. Se per “cultura” intendiamo, legittimamente, la capacità di elaborare, attraverso il tempo, risposte pertinenti ai bisogni degli uomini e delle donne, allora vanno bene anche i cecatielli (che, tra l’altro, sono tra i miei piatti preferiti). Ma noi sappiamo che i bisogni non sono solo quelli dello stomaco. Percepiamo – e sono, forse, quelli più profondi e più complessi – anche i bisogni che sgorgano dalla mente e dal cuore. Allora sarà necessaria un’indagine approfondita, a più voci, sul valore delle risposte che, dalle nostre parti, a questi bisogni vengono offerte. Che – mi sembra ovvio – non dovrebbe limitarsi all’agonizzante Città spettacolo. Ma allargarsi anche, tanto per dire, allo stato delle biblioteche, alla partecipazione a seminari, lezioni, conferenze, concerti, mostre. Al reale livello di tali offerte. E alla effettiva richiesta, da parte della città e della provincia, di tali “risposte” culturali. Invece sembra che il dibattito si risvegli solo in determinati momenti.
Quando, con la prima vittoria della vecchia amministrazione, l’assessore alla Cultura, Raffaele Del Vecchio, pensò bene di sopprimere CantarPasqua, giunta alla decima edizione, a parte Nicola Sguera e Danila De Lucia, non ricordo di aver né sentito, né letto nessuna dichiarazione non dico di condanna, che, per le nostre contrade sarebbe eccessivo, ma, quantomeno, di ragionevole dubbio. Eppure, grazie a quella rassegna, erano passati per Benevento e per le sue chiese, con costi estremamente contenuti, Giovanna Marini, Terem Quartet, i fratelli Mancuso, le Bisserov, Riccardo Tesi, Elena Ledda, Timna Bauer e un drappello nutrito di altri straordinari musicisti. Anzi, visto che tanto tempo è passato, l’ex assessore potrebbe anche dirci se, la sua, sia stata una scelta solitaria oppure sollecitata da qualche “disinteressato”, seppure improvvido consigliere.
Torniamo a De Simone e alla sua Gatta sublime. Gli anniversari acquistano valore se ci spingono a riflettere. Quel capolavoro non nasceva dall’improvvisazione. Ma da uno studio rigoroso, attento, approfondito, di un mondo, quello popolare, oramai ritornato solo a fare da cornice folkloristica all’Italia pittoresca, e pure un po’ volgare, in cui ci tocca vivere. De Simone aveva assorbito la lezione pasoliniana: Bisogna esporsi questo insegna/Il povero Cristo inchiodato: non solo a scrivere o a conoscere, ma a vivere.
Eppure potremo non perdere definitivamente la guerra se tutti, ognuno per il proprio campo, finita la campagna elettorale, saremo in grado di sfidare i nuovi amministratori comunali con progetti possibili ma solidamente costruiti su studi rigorosi, attenti e approfonditi. Sono tempi difficili, questi. L’improvvisazione non basta più. E’ necessario ritornare a studiare. Per parafrasare Mimmo Paladino: Silenzioso, mi ritiro a dipingere un quadro. E quante emozioni, suggestioni e vivacità espressiva può ancora consegnarci quell’opera.