di Amerigo Ciervo
A molti sarà sicuramente capitato di vedere, in rete, il filmato di Chimiary, la giovane moglie di Emanuel, il giovane nigeriano ammazzato a Fermo con un pugno, che, in lingua Igbo, piange, cantando, il suo compagno ucciso. Se qualcuno non l’avesse visto, farebbe bene a cercarselo, il filmato, e, per qualche minuto, volgere, a quelle immagini strazianti, uno sguardo non superficiale. Nel lamento funebre della giovane nigeriana, che vorrebbe diventare medico, segno incontrovertibile di una ancora integra visione sacrale del mondo, dall’Occidente, grasso e annoiato, definitivamente smarrita, forse riusciremmo a trovare una delle chiavi per comprendere quanto sta accadendo intorno a noi. Anche nelle nostre antiche culture, fino ad alcuni decenni fa, il morto veniva ricordato con il canto.
E’ ancora vivo il ricordo della descrizione del lamento funebre lucano, nella chiesa di sant’Anna, durante un’edizione della rassegna CantarPasqua, fatto da Giovanna Marini. Ma ho anni sufficienti per rammentare i tanti funerali a cui ho assistito, da bambino, tra gli anni cinquanta e sessanta, a Moiano. Con il pianto, le vedove, le sorelle, le madri, a stento trattenute dalle vicine, dalla finestra, da cui erano state prudentemente spostate le “teste” di gerani, gridando e tirandosi i capelli, salutavano il loro defunto che abbandonava definitivamente la casa-mondo. La scena sapeva di rituale teatralizzato. Di elaborazione del lutto. Della necessità di dover fare i conti con la crisi della presenza.
Ma tutto era inserito in una visione sacra della vita e della morte. In quel cerchio in cui vita e morte finiscono per avere la medesima, sacrale valenza. Simboleggiata da quel brodo di gallina che si dava alla partoriente e, nel contempo, si offriva, per consolazione (consuòlo), durante il pasto funebre. La morte non era stata ancora rimossa dagli orizzonti della società della modernità e della tecnica. Tutti sapevano che si stavano vivendo momenti di ridondante tragicità, ma nessuno rideva. Anzi l’ultima passerella, con il defunto che attraversava la piazza principale del paese, tendeva a marcare proprio l’ingresso tra i morti del villaggio. Quel morto, da quel momento, apparteneva a tutti. Viceversa la desacralizzazione, oggi, attraversa per intero le nostre esistenze. Travolti, con l’antica società contadina, anche i rituali sicuri del vecchio cattolicesimo, il nostro paese, che non è mai, per le sue ben note vicende storiche, riuscito a sviluppare uno straccio di “religione civile”, si trova ora senza più punti di riferimento, senza una tavola di valori adeguata e condivisa, sicché procede a tentoni, spesso sbandando paurosamente.
Del terribile evento di Fermo, per esempio, ciò che colpisce profondamente le nostre coscienze non è tanto il tragico, dolorosissimo fatto in sé, quanto piuttosto quel chiacchiericcio inconcludente che non giunge a nulla, quel concionare triviale, sui social, da cui subito si percepisce, senza aver dovuto compiere studi di antropologia culturale, che la sacralità della vita e della morte è argomento, per molti, da derubricare a inutili ammennicoli del passato. Tutto ciò diventa ancora più grave in quelle comunità, come la nostra, che si sono costruite ad arte la favola bella dell’isola felice. Dove si tende ad attutire e ad eliminare gli spigoli, in una serie ininterrotta di “misfatti eleganti e farisaicamente onesti”, per citare il critico Luigi Russo, che sono il frutto di una pratica che i meschini poteri di provincia hanno sempre – pro bono pacis, s’intende – messo in atto e che il sublime Manzoni sintetizza nel celeberrimo chiasmo del “sopire, troncare, padre molto reverendo, troncare, sopire”. Per non parlare, inoltre, dei mestatori e dei provocatori di professione, di quei titoli di giornali pensati apposta per parlare alla pancia del paese, al ventre molle dell’Italia che non ha mai potuto, né forse voluto, fare i conti con la visione fascista del mondo e della vita di molti nostri connazionali i quali, proprio in occasione di eventi come quello di Fermo, si levano, senza pudore, ogni maschera. Dico e sottolineo: “fascista”, sperando che la si smetta, una volta per tutte, di giocare con le parole.
E se ben si comprende come, per costoro, sia insopportabile sostenere che la Costituzione della Repubblica è stata conquistata con il sangue di chi, per la libertà e la dignità di tutti, ha combattuto, non si capisce davvero quale civiltà essi dicano di voler difendere. Quella cristiana, sostengono. Ma di quale cristianesimo parlino, non è dato sapere. Quel poco che a noi è stato insegnato fa riferimento, viceversa, a un giudizio dell’ultimo giorno che sembra non ammettere obiezioni: “Perché io ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato. (…) Ma, quando ti abbiamo visto forestiero e ti abbiamo ospitato, o nudo e ti abbiamo vestito? (…) Ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me.” Una chiarezza esemplare, il passo di Matteo. Forse sarebbe necessario, facendo nostro l’invito di David Maria Turoldo, il prete-partigiano-poeta, “ritornare nel deserto per ascoltare la Voce”. Nella speranza di ritrovare quel minimo di sacralità perduta grazie alla quale, forse, avremmo ancora la possibilità di salvarci.