di Giancristiano Desiderio
Se c’è il Dna c’è il (presunto) colpevole, se non c’è il Dna non c’è il (presunto) colpevole. Detta così potrà sembrare anche brutale, ma i fatti parlano chiaro: gli investigatori riescono a capire qualcosa della scena del crimine solo se c’è il Dna, altrimenti brancolano nel buio. Si prenda il caso della piccola Maria Ungureanu: la bambina rumena di 9 anni trovata morta il 19 giugno a San Salvatore Telesino in una piccola piscina di un ristorante. Dall’esame dei carabinieri del Ris ci si attendeva molto, invece non è venuto fuori nulla. Il nucleo scientifico dei carabinieri ha analizzato i calzoncini, le mutandine, la maglietta della bimba e, naturalmente, anche il corpo ma non c’è traccia né di Dna né di violenza. Non sono state rinvenute tracce di materiale organico né sulle parti intime della bimba né sulle mutandine. La piccola Maria era sì vittima di abusi, ma non ne subì quella tragica e fatale sera o, forse, riuscì a non subirne e pagò con la vita. Andarono così le cose? Neanche gli inquirenti, coordinati dal procuratore della Repubblica di Benevento Giovanni Conzo, sanno rispondere alla domanda. Cosa gli manca? Il jolly ossia il Dna.
E’ nota la regola dei delitti: o l’assassino salta fuori nei primi sette giorni oppure il caso con molta probabilità rimarrà irrisolto. Le indagini, subito dopo il ritrovamento del cadavere della bambina, si erano concentrare su Daniel Ciocan: 21enne, anche lui rumeno, conosceva la bimba, la vide qualche ora prima della morte ma nel momento decisivo era da tutt’altra parte. Il suo alibi regge. Ciò che, però, non sembra stare in piedi è il racconto che lo stesso Daniel Ciocan ha fatto ai carabinieri nella caserma di Cerreto Sannita. L’avvocato della famiglia di Maria – Fabrizio Gatti – sostiene che il giovane rumeno non ha detto tutto e lo ha invitato a parlare: “Dobbiamo sapere di più sui giostrai che in quei giorni erano in paese”. La stessa tesi si sente ripetere in paese, ma nessuno sa dove dormirono e nessuno li ha più visti. Possibile? L’unica cosa che si sa è che le giostre erano proprio vicine alla scena del delitto. Ma ora quelle giostre non ci sono più e i giostrai sono scomparsi così come sono apparsi. Un po’ poco, molto poco per far luce nel mistero del giallo sannita.
Al ristorante Borgo San Manno ci sono ancora i sigilli, l’attività è sospesa. Gli inquirenti sono ritornati ancora una volta sul luogo del delitto. Nella speranza di trovare la giusta chiave di lettura. Ma sono passati già venti giorni e quel giardino che vide per l’ultima volta Maria viva è più simile a una sfinge che a un libro letto male. Se l’assassino – o gli assassini – non ha lasciato, come sembra, alcuna traccia di sé, il mistero è destinato a rimanere un mistero e il delitto non avrà né una spiegazione né un omicida. Ma se dall’esame dei carabinieri del Ris fosse venuto fuori il Dna, cosa sarebbe cambiato? Avremmo avuto un Dna ma non il colpevole. Per dare un volto al Dna si sarebbe dovuto fare ciò che si è fatto nel caso del delitto di Yara Gambirasio e Massimo Bossetti: sottoporre all’esame del Dna un intero paese. In fondo, la prova regina prova una sola cosa: che gli investigatori non sanno più investigare.
tratto da Libero del 9 luglio 2016
sono d’accordo e lo affermo con cognizioni di causa per esperienze dirette che posso fornire a qualsiasi mezzo d’informazione degno di questo titolo!