di Antonio Medici
Gli alimenti e le pietanze di per se hanno l’attitudine a rivelare ben più che gusto e tendenze gastronomiche di cuochi e mangiatori, fornendo, piuttosto, indicazioni di carattere sociale, culturale, storico ed economico se non, in casi eccezionali, filosofico; la storia dell’alimentazione ha assunto dignità autonoma in numerose università ed attraverso l’indagine dei ricettari antichi alcuni studiosi disegnano contesti sociali e linee evolutive di popoli e comunità.
Talmente gagliarda è la capacità evocativa e pomposa la valenza simbolica di taluni alimenti, poi, che il loro uso e cenno travalica il contesto culinario per sfociare negli ambiti più svariati. Si prenda il caso del fagiuolo, ad esempio: tale è piccola la sua dimensione, tale è grande il suo contenuto di sostanza organica e allegorica. Scriveva Pellegrino Artusi sul finire dell’ottocento: “si dice, e a ragione, che i fagiuoli sono la carne del povero, e infatti quando l’operaio, frugandosi in tasca, vede con occhio malinconico che non arriva a comprare un pezzo di carne bastante per una buona minestra alla famigliola, trova nei fagiuoli un alimento sano, nutriente e di poca spesa.”
Massimo Montanari, storico medievale e dell’alimentazione, scrive, poi: “Il più antico ricettario italiano, il due-trecentesco Liber de coquina, comincia dalle verdure… E via con i cavoli … e i fagioli. Tutto ciò non è ovvio …. perché le verdure non furono mai di gran moda nel Medioevo, sulle tavole dei potenti: il simbolo alimentare del potere era la carne”.
Oggi forse il simbolo del potere più che la carne è la soia o il tofu, suo derivato nonché cibo chic delle classi che si sono auto assegnate la missione della conservazione della specie, assumendo, in virtù di una presunta cultura superiore, costumi alimentari mai visti prima ed a loro avviso indubbiamente più sani e confacenti all’organismo umano.
Il fagiuolo, in questa fase storica, invece, trascendendo il potere, assurge a discrimine di posizionamento politico, così soppiantando la tradizionale, e diremmo novecentesca, contrapposizione destra-sinistra, con inversione delle parti.
Insomma, l’ex sinistra e l’ex destra pare stiano definendo il proprio universo ideologico ed il proprio campo di battaglia intorno alla simbologia del fagiuolo.
Qualche tempo fa, non a caso, Umberto Del Basso De Caro, sottosegretario del governo Renzi – presunto centro sinistra, novecentescamente parlando -, per riferirsi con disprezzo ad un fastidioso collega della compagna ne parlò come di una “accoppatura di fagioli”, ossia di quella schiumetta che si forma durante la cottura lenta del legume, considerata, evidentemente, volgare ed indegna di inquinare l’altezzosità superba del governante e dei sui congiunti.
È di ieri l’altro, invece, la notizia che Clemente Mastella – presunto centro destra, novecentescamente parlando – ha festeggiato la sua elezione a Sindaco di Benevento, offrendo ai cittadini dell’amata città, in un clima torrido di euforia e calore estivo, scodellate di pasta e fagiuoli, scandalizzando i radical chic e i dotti intellettuali (già in larga parte di sinistra) della valle sannita, prodighi di critiche per la scelta di un pasto così volgare.
La pasta e fagiuoli, dunque, saporita e sovversiva, segno di umiltà e ruralità, di vicinanza e comunanza al popolo più semplice, come simbolo di una politica popolare che torna nelle piazze anche con il refettorio o anche, a detta dei più critici, come blandizia del signorotto al popolo incolto.
Mastella, politico di solida esperienza oltre che corporatura, con una pingue e tonda pancia ostentata sotto un perenne golfino rosa shocking che fa molto gay friendly, a dispetto delle sue posizioni contro il gay pride, è circondato da un’aura di impopolarità in tutto il paese fuori dai confini del Sannio che, invece, lo ha eletto nel suo momento di maturità, quando è senza partito e senza truppe. La sua è davvero la vittoria della popolarità, di quell’operaio con pochi soldi dell’Artusi, metaforicamente pari del cittadino senza soldi – il capoluogo Sannita figura tra i Comuni più indebitati d’Italia – e con poca speranza, che acquista fagiuoli sostanziosi – l’esperienza politica – con l’intento di “quietare per un pezzo gli stimoli della fame”. E lui, giustamente, celebra la vittoria con un piatto che è metafora di una concezione politica, allegoria delle aspettative dei suoi elettori ed al contempo un oltraggio al perbenismo di provincia che si scandalizza del “ma” dei fagiuoli. Concludeva, infatti, Pellegrino Artusi: “ma… anche qui c’è un ma, come ce ne sono tanti nelle cose del mondo, e già mi avete capito. Per ripararvi, in parte, scegliete fagiuoli di buccia fine o passateli; quelli dall’occhio hanno meno degli altri questo peccato.”
Nonostante un antico ripudio per il mastellismo, vien da dire, dunque, occhio all’aria pestifera del perbenismo e del radical chicchismo.
Che Dio ci scampi dal silenzio del tofu.