di Amerigo Ciervo
Caro Gonzalo, non so se ti capiterà di leggere queste poche righe che – ti assicuro – sono scritte con il cuore. Mi permetto di darti del tu perché chi scrive è un vecchio – ma proprio nel senso letterale – tifoso del Napoli che, esattamente sette mesi prima che tu nascesti, era al san Paolo per il primo scudetto della squadra azzurra, finalmente conquistato perché non so quale santo – o, forse, la Tyche: i Greci chiamavano così la divinizzazione della Fortuna – aveva stabilito che approdasse, sulle rive del golfo di Partenope, quel certo giocatore, il più grande di ogni tempo, che tu ben conosci. In quei giorni, pur masticando amaro, i tre squadroni del Nord, con tutti i loro innumerevoli tifosi, che si ritrovano in tutti i pertugi d’Italia, ci guardarono con la tipica albagia, mascherata da finta bonomia, del padrone che, una volta, ma che sia una sola volta, consente al servo di sedersi con lui per prendere un caffè. Già tre campionati dopo, nel maggio del 1990, cominciarono a storcere il muso e, nella finale della coppa del mondo, lo stadio olimpico riempì di fischi la nazionale del tuo paese e, principalmente, Diego Maradona, reo di non aver sbagliato il rigore decisivo che, nella semifinale di Napoli, toglieva all’Italia la possibilità di giocarsi la finale. Anche allora i poteri mafiosi, che reggono il mondo del calcio, compirono un’ingiustizia somma, punendo l’Argentina con un rigore totalmente inventato, tra i cachinni degli ottantamila italiani che arrivarono a fischiare, ti ripeto, l’inno nazionale del paese con più cognomi italiani dopo l’Italia e tifando sfacciatamente, nella città delle fosse ardeatine, per i tedeschi. Maradona rispose, in quel dolcissimo e musicale spagnolo che parlate voi argentini, con una definizione che non ripeterò e scoppiò in lacrime.
Come hai pianto tu, di rabbia, domenica a Udine, mentre lo stadio sghignazzava intonando: Juve, Juve. In quel preciso momento avrai capito, caro Gonzago, che ti trovi in uno strano paese. Voi, tu e Diego, non c’entrate che solo di passaggio. Vi siete buttati in una situazione complicata di un ben più complicato paese. E’ il Napoli il problema. E’ Napoli il problema. Da qualche centinaio d’anni. Dalla “felice annessione” sabauda – per citare il lapsus del piemontese di Tomasi di Lampedusa – che riversò sul Mezzogiorno una serie di funzionari amministrativi che di noi, della nostra cultura, dei nostri costumi nulla sapeva e nulla comprese. “Altro che Italia, qui è l’Affrica” scrisse uno di questi funzionari e cominciò, come ci spiegava il professore Galasso, all’università, il lento accumularsi di impressioni e di giudizi con cui si venne formando il cliché del napoletano, divulgato nella cultura e nella mentalità correnti dell’Europa moderna e contemporanea, mai distinguendo fra Napoli come città e Napoli come Mezzogiorno nel suo complesso. Tanto che quando, dopo la seconda guerra mondiale, centinaia di migliaia di meridionali risalirono lo stivale per lavorare, ovunque, nell’Italia padana, si usava chiamare “Napoli” tutti i meridionali. Ma sarà entrato qualche volta nel teatro di San Carlo, quel signore che aveva scoperto l’Africa nel Mezzogiorno? O letto Gaetano Filangieri, l’illuminista che, con la riflessione sulla felicità dei popoli, pare abbia influenzato gli estensori del celebre incipit della Costituzione americana?
Avrai capito, caro Gonzalo, che Napoli è un problema per questo strano paese dove talvolta ci si comporta ancora come gli stati regionali del Quattrocento. Deve essere proprio strano un paese in cui si chiede al Vesuvio – ormai avrai fatto l’abitudine a quelle invocazioni domenicali – di distruggere una delle otto o dieci città al mondo con un proprio stigma, prorompente e seducente, intrigante e provocante. Anzi continuando ad affermare, come il piemontese di cui sopra, che Napoli non è Italia. Deve essere proprio strano un paese in cui, mentre si afferma che valgono i criteri meritocratici, si nomina direttrice di una rete della tv pubblica una signora a cui una rete privata ha da poco chiuso il programma per scarsità di audience. Deve essere ben strano un paese in cui una ministra corre a telefonare al fidanzato per comunicargli che il governo ha appena approvato l’emendamento che gli necessitava per i suoi affari privati.
E la litania, caro Gonzalo, potrebbe continuare ancora per molto. Tu mi potresti rispondere: da noi le cose non vanno meglio, anzi… Sarà perché ci stanno tanti italianuzzi (citazione breriana, un grande giornalista di lassù del tempo che fu) anche in Argentina? Siamo noi ad essere fatti male, occorre farsene una ragione. Per dirtene un’altra: qualche giorno fa il giornale fondato da un grande politico sardo, Gramsci, che ha trascorso gli ultimi nove anni della sua vita in carcere, condannato da un regime, il fascismo, – a cui si ispirarono anche i generali che fecero del tuo paese un autentico macello: te ne avranno sicuramente parlato – ha sbeffeggiato uno degli ultimi partigiani che quel regime ha combattuto e sconfitto. Ti sembra un paese serio, questo? E potrebbe il calcio, in un paese simile, essere diverso?
L’italiano medio non è “uomo”, ma naturalmente “caporale”, secondo la nota distinzione del più grande attore comico italiano, napoletano della Sanità, anche lui tifoso del Napoli. Il caporale è debole con i forti e forte con i deboli. Lecca i potenti e schiaccia i piccoli. L’italiano medio s’intruppa, ha sempre bisogno di madri che gli diano sicurezza e che non lo distolgano dai suoi traffici privati. Gli arbitri con cui la domenica voi giocatori dovete fare i conti sono l’archetipo del caporale, il paradigma dell’italiano medio. Il loro corpo è sacro, come erano sacri i corpi dei re francesi, quelli che Marc Bloch, nato come te in Francia, chiama taumaturghi, cioè operatori di prodigi. Ma, a differenza dei francesi che credevano che, toccando il corpo del re si veniva guariti da alcune malattie, i corpi degli arbitri-caporali sono intoccabili. Con le mani. Toccandoli con la testa, invece, essi fanno autentici prodigi. A saperlo, caro Gonzago, ‘na capata al caporale di giornata, di servizio domenica a Udine, saresti stata ben lieto di appioppargliela. Purtroppo, però, dalle parti dell’Africa, l’unico miracolo che funziona è quello del sangue di san Gennaro, che, però, è un miracolo folkloristico, buono tutt’al più per costruirci un po’ di colore. I veri miracoli – dopo tre anni di Italia, lo avrai capito – si fanno altrove. Sicché concludo, caro Gonzago, con la medesima raccomandazione che i napoletani rivolsero a san Gennaro quando la chiesa cattolica lo retrocesse nella serie B dei santi. Ti hanno dato quattro giornate? E tu futtitenne… E se pensi che ci sono paesi migliori, dove ritieni di poter stare meglio, fujtenne.
Se dovesse malauguratamente accadere, un po’ mi dispiacerebbe ma comprenderei e, ti assicuro, non dimenticherei certo le gioie che mi hai fatto provare in questi tre anni, ma soprattutto quest’anno, con la sublime poesia dei tuoi goals che, comunque vada a finire, sono già tutti nella storia del Napoli.
Bravo, Amerigo ! Un articolo sublime. Te lo dice, tra gli altri, uno juventino deluso dalla “mafia politica” che da tempo impera, ormai, ai vertici della Federazione e che vede in Moggi ed altri autorevoli ( o, forse, sarebbe più corretto dire “autoritari”) esponenti del “triangolo del nord” i loro membri più rappresentativi. E’ proprio in virtù di quella “mafia politica” cui accennavo poc’anzi che il sottoscritto non riesce più ad appassionarsi a quel mondo che con occhi da piccolo vedeva mitico e leggendario e che da adulto ha visto pian piano sgretolarsi in un processo degenerativo sempre più profondo.
Il mondo del calcio e dello sport in generale è l’immagine speculare dello stato di degrado, politico, sociale, culturale, economico in cui versa il Nostro Paese: la corruzione regna dappertutto, in tutti i campi e Tu hai fatto bene a consigliare a Gonzalo di scappare dall’Italia a guisa di un padre che, sia pur a malincuore, si rassegna alla volontà del figlio di cercare all’estero la normale gratificazione del suo impegno e della sua bravura.
Ed hai fatto bene anche a citare episodi e personaggi che hanno dato lustro alla storia del Nostro Sud oltre che, naturalmente, del Nostro Paese.
Da anni, Ti confesso, provo per la Juventus solo un residuo di simpatia, retaggio di una fanciullezza spensierata ed ingenua che mi portava a credere all’esistenza di un mondo puro ed incontaminato al quale sognavo un giorno di appartenere.
Oggi non tifo più per nessuno e non piango più, come facevo da bambino, quando la Juve perde contro gli “odiati cugini” di sempre (Inter e Milan) e la mia innata propensione per la difesa dei deboli mi impone di vergognarmi di fronte alle ingiustizie cui siamo da tempo abituati ad assistere, non solo in campo sportivo.
E allora, come direbbe un grande statista dei tempi andati, “Che fare ?”. Ribellarsi: è questa l’unica maniera che conosco per respingere i soprusi. Sono convinto che se questa situazione fosse avvenuta negli anni settanta, intendo riferirmi, ovviamente, al clima politico e culturalmente fervido di quel periodo, tante cose non le avremmo sopportate. Perchè oggi non è così ?