di Giancristiano Desiderio
Benevento è una città che crede alle favole o, meglio, finge di credere alla favole. Tra i miti beneventani più diffusi c’è il turismo. La vulgata è questa: il turismo è il nostro tesoro sprecato. Per la verità è una leggenda non solo del povero orfano sannita ma anche un mito nazionale (proprio oggi il Corriere della Sera con Gianatonio Stella pubblica un dossier in cui si evidenzia che l’Italia è la Grande Bellezza sprecata e nonostante il grande patrimonio e il record di siti Unesco non riusciamo a incassare più di Germania e Macao). Tuttavia, il mito beneventano è un caso a parte. Ce ne rendiamo facilmente conto se leggiamo un ottimo libro di Luigi Ruscello intitolato La questione meridionale non avrà mai fine.
Il mito del turismo beneventano che, dando ascolto a politici e intellettuali, potrebbe dare grande impulso all’economia sannita, è distrutto da Ruscello in modo spietato. Secondo i dati Istat, nella nostro provincia i posti letto delle strutture ricettive al dicembre del 2011 erano 5898. Ebbene, se tutti i posti fossero occupati per trecentosessantacinque giorni all’anno si avrebbero la (grande) bellezza di 2.152.770 presenze. Si tratta di un numero consistente i cui guadagni, investiti e spesi ancora nel Sannio, trasformerebbero davvero la vita economica della provincia. Ma è fin troppo evidente che è un’illusione o, meglio, una fola. Infatti, il record di presenze che si è avuto nel Sannio risale al 2007 – prima della crisi – con 164 mila unità. Bisognerebbe, allora, portare il dato del record ad agganciare la media nazionale che è pari a circa il 40 per cento, ma questo significherebbe che le presenze dei turisti dovrebbero raggiungere la cifra di 861mila unità ossia cinque volte di più il record del 2007. Da questi numeri si può capire che il cosiddetto turismo beneventano – che naturalmente beneficia dell’immancabile sito Unesco – è soltanto un mito.
Altro mito beneventano è la storia. I beneventani sono orgogliosi del loro passato e gelosi delle identità remote: l’Antico Sannio, Maleventum, i Romani, i Longobardi, Manfredi di Svevia e anche i lunghi secoli dello Stato della Chiesa. I beneventani credono di essere figli dei sanniti, ma sono figli di preti. Gli studi storiografici sono più stranieri che locali e per avere un nome considerevole dobbiamo risalire ad Alfredo Zazo – peraltro salernitano e non beneventano – mentre l’ultima storia della città risale all’opera monumentale di Vergineo più citata che letta. Una vera e propria tradizione di studi beneventani non esiste, mentre ci sono singole opere dovute alla passione individuale. Il resto della storia è folklore.
Il terzo mito, che discende direttamente dalla retorica del secondo, è la cultura. Anzi, con la cultura si raggiunge il culmine leggendario giacché con la parola cultura si è abituati a dire tutto e nulla. Invece, il primo dovere di una buona cultura è la concretezza. Che cosa produce la cultura beneventana? Spiace dirlo ma non produce nulla. Anche qui: non c’è una cultura beneventana ma solo esperienze singolari alle quali va riconosciuto valore ma il cui limite è nella stessa qualità: il localismo. Benevento non ha mai avuto un editore di livello almeno regionale. Chi ci provò – Gennaro Ricolo – non era beneventano ma napoletano. Dov’è l’ultimo libro nazionale di un autore beneventano? Il Premio Strega – una sorta di mito nel mito – non è beneventano. I teatri cittadini sono più chiusi che aperti e sono chiusi anche quando sono aperti e proprio per questo motivo finiscono per chiudere. Gli archivi, le biblioteche, i musei sono imbalsamati. L’unico dibattito cittadino sulla cultura è sull’assessorato alla Cultura che non c’entra niente con la cultura (l’uso della maiuscola segnala il primato della retorica).
I tre miti beneventani – ai quali altri se ne potrebbero aggiungere: la politica, l’università, la gastronomia, l’autenticità – sono tra loro collegati: la cultura conduce alla storia, la storia porta al turismo, il turismo riconduce alla cultura e così girando in tondo in eterno. I miti hanno un prezzo: non permettono alla città di avere un racconto vero o almeno verosimile di se stessa. La città che ambisce ad essere rappresentata non ha una rappresentazione di sé e ne paga il fio. L’alluvione dello scorso autunno è la realtà che fa valere i suoi ignorati diritti sul mito. Così Benevento e la sua provincia – una delle più povere d’Italia – ripiegano sulla politica che rimane l’unico registro per auto-comprendersi. Ma è un esercizio falso il cui esito è il teatro sociale e la modernità mancata.