di Amerigo Ciervo
Grazie all’invito, da parte del centro studi “Bachelet”, a introdurre e a moderare, a Cerreto Sannita, un incontro tra Paolo Ricci, docente di economia aziendale presso l’Università del Sannio, e un gruppo di studentesse e di studenti frequentanti il corso di cittadinanza attiva organizzato dal centro medesimo, ho potuto felicemente scoprire un libro: Tempo della vita e mercato del tempo: tre dialoghi sul tempo tra Ricci e Aldo Masullo, FrancoAngeli, Milano 2015. Subito la memoria, che coincide con la vita stessa – un’annotazione che affiora in non pochi passaggi dei dialoghi – m’impone di riandare alla mia esperienza di studente di filosofia alla “Federico II”, agli inizi degli anni Settanta, quando, pur non dovendo sostenere, per motivi meramente alfabetici, l’esame di filosofia morale con Masullo, con un piccolo gruppo di colleghi ci si recava ugualmente a seguirne le lezioni. Lezioni brillanti, profonde e di straordinario spessore, durante le quali si sentiva parlare – finalmente – di fenomenologia, di strutturalismo, di esistenzialismo, nella facoltà che, in quegli anni, s’ergeva come una sorta di basilica dello storicismo declinato in tutti i modi possibili. Né ho più dimenticato alcune entusiasmanti letture, come quella dello Hegel della Fenomenologia dello spirito. Aggiungerò, inoltre, che, essendo, allora, Masullo deputato, teneva lezione di sabato e noi, molto volentieri, “sacrificavamo” il sabato mattina per andare ad ascoltarlo.
Esaurita la necessaria razione di nostalgia, l’altro aspetto positivo è stato l’aver scoperto un economista, Paolo Ricci, dell’Università della città in cui lavoro, che innerva, sulla disciplina che studia e che insegna, solidissime ed estremamente attinenti riflessioni filosofiche. Non sono pochi quelli che pensano agli economisti come a studiosi continuamente chini a compulsare e ad analizzare dati, intenti a prevedere ipotesi a breve, medio e lungo termine (nonostante Keynes fosse sicuro che “sul lungo periodo siamo tutti morti”). Probabilmente le tristi e complicate vicende degli ultimi venti o trent’anni sembra abbiano, ancor di più, consolidato questa visione. Con conseguenze tragiche. Penso, per esempio, – e mi riferisco al mio luogo di lavoro, la scuola – alla sovrabbondanza di termini, nei quali è fin troppo marcato lo stigma economico, ormai entrati in pianta stabile, oltre che nel pedagogismo francamente eccessivo usato nei vari documenti e ordinanze, nella stessa struttura concettuale della scuola. Il neutro “dirigente” ha sostituito il molto più adeguato “preside” o “direttore didattico”. Ci ripetono da tempo quanto sia necessario amministrare la scuola come un’azienda. Gli studenti e i genitori sono diventati clienti. Il titolo di studio deve essere “spendibile”. Abbondano crediti e debiti formativi. Durante le giornate dell’open day, si spolvera e si sistema in vetrina l’argenteria dell’istituto. E, infine, il balsamo magico che salverà la scuola italiana è la formula ”competenza”. Qualche tempo fa, proposi, celiando ma non troppo, durante un corso di aggiornamento, di innovare – Dante mi perdoni – l’ultimo verso della celeberrima terzina del XXVI canto dell’Inferno dantesco, quello di Ulisse, con “ma per seguir virtute e competenze”. Ora tutto questo si configura certamente come uno dei molteplici segni di “quella perdita di discernimento della civiltà contemporanea” che, mi pare, sia la motivazione forte che ha spinto a dialogare l’economista e il filosofo, e che, come avverte Ricci, “se non di austerità moriremo”, rappresenta il pericolo, forse meno evidente, ma di sicuro più grave, del tramonto della nostra civiltà. Di qui la necessità di andare oltre una pura e semplice lettura economica della crisi, che ha dato la stura, tra l’altro, a una colossale mistificazione, raccontataci, elegantemente infiocchettata, dai media, e di recuperare alcuni temi essenziali della riflessione filosofica. Tra i quali balza, a fronte di una immobilità appiattita sul presente, proprio quello del tempo. Ritorno per un attimo al mondo del mio quotidiano ascrivendo – fatta la tara delle oggettive difficoltà di lavorare didatticamente su una disciplina complessa – alle medesime cause, per esempio, il disinteresse crescente di moltissimi giovani per la storia. Sicché sembra chiaro che anche (o, forse, mi sia consentito, soprattutto) alla filosofia occorra chiedere aiuto se si voglia analizzare la società prodotta dall’economia contemporanea che Ricci definisce la società “dei tre senza”: senza discernimento, senza memoria, senza coscienza. Con quale risultato? Che il disordine sembra grande sotto il cielo e la situazione non è per niente eccellente.
I temi più cari all’economista (per esempio, il rapporto dell’azienda con il problema del tempo, che non è solo, come sostiene Bergson, “quantitativo” ma, prima di tutto, “qualitativo”) danno vita a riflessioni illuminanti e di sicurissima presa. Per me, un’ulteriore conferma che la scuola non è e non dovrà mai essere un’azienda. Essendo il luogo dove bisogna “avere il coraggio di dire ai giovani che essi sono tutti sovrani”, dove si deve insegnare “che il problema degli altri è uguale al mio. E che sortirne tutti insieme è la politica e sortirne da soli è l’avarizia”. Essendo il luogo dove la pratica più “ingiusta è quella di far parti uguali fra disuguali”. Quanto lontano da quello che la scuola è oggi – naturale conseguenza di ciò che l’economia è oggi – sono le parole di un prete, don Lorenzo Milani, che ebbe il coraggio di dire al suo vescovo, nella prima metà degli anni sessanta, di essere cinquant’anni avanti. Aveva ragione, anche se la chiesa gli diede torto, se riflettiamo su quanto oggi ci viene annunciato da Bergoglio.
Dunque l’idea è che solo praticando il pensiero in maniera libera e, nel contempo, rigorosa, praticando cioè la filosofia, noi possiamo criticamente analizzare il mondo in cui noi viviamo. Come fa, appunto, Paolo Ricci che, dopo aver individuato gli otto peccati capitali dell’economia capitalistica mondiale (una competizione con spinte concorrenziali incontrollate, la smisurata crescita delle imprese, la supremazia dell’economia finanziaria rispetto a quella reale, e dell’economia rispetto alla politica, la primazia della tecnica che sta distruggendo la cultura umanistica, la spersonalizzazione dell’impresa, la mitizzazione del profitto, la graduale deresponsabilizzazione dell’impresa), dialogando, ossia attraversando il logos, cerca di comprenderne le cause utilizzando una cassetta degli attrezzi più ricca e più differenziata. E’ davvero una bella notizia apprendere che un economista discuta di questi problemi con un filosofo e con un filosofo importante come Aldo Masullo. Leggere il loro libro aiuta, almeno, a non perdere la speranza. Con i tempi che stiamo vivendo è già un ottimo risultato.