di Billy Nuzzolillo
I Savoia, come ricorda l’amico Giancristiano Desiderio citando Montanelli, hanno tante colpe, ma anche il merito di aver fatto l’Italia una e indipendente. Lo hanno fatto – ed è bene ricordare anche questo – attraverso l’occupazione militare dei territori del Meridione. In pratica, gli italiani del Nord e del Sud, per dirla con le parole di Salvatore Scarpino, si conobbero guardandosi attraverso il mirino del fucile. E forse non si poteva fare diversamente.
Ma la storia, come si sa, è scritta dai vincitori e si è dovuto attendere il 1983, anno di pubblicazione della coraggiosa Storia del brigantaggio dopo l’Unità di Franco Molfese, per capire finalmente i motivi della ribellione (repressa nel sangue) che si ebbe dopo il 1860 nel Mezzogiorno d’Italia. A partire dalla pubblicazione del libro di Molfese è iniziato un processo di rivisitazione storica che, pur tra mille difficoltà (e aggiungerei inutili strumentalizzazioni), ha consentito di ampliare la nostra visione rispetto alle precedenti conoscenze scolastiche.
E così abbiamo man mano scoperto ciò che i testi scolastici ci avevano nascosto, e cioè che il Regno delle Due Sicilie prima dell’invasione, oltre alle note arretratezze sul piano delle infrastrutture viarie e ferroviare (con tutto ciò che ne conseguiva), era anche uno dei paesi più industrializzati al mondo ed eccelleva nel settore tessile e siderurgico, aveva la seconda flotta mercantile in circolazione e un’agricoltura agganciata ai mercati esteri, grazie soprattutto alle colture specializzate. Abbiamo inoltre scoperto che con i soldi del Regno delle Due Sicilie si sanò il debito pubblico del Regno di Sardegna e che l’esercito piemontese si macchiò di stupri, sevizie, violenze e assannini, a partire dall’eccidio di Pontelandolfo e Casalduni, dove avvenne la più feroce rappreseglia mai compiuta nella storia italiana.
E non è un caso che, prima ancora dell’operazione-verità di Molfese, lo stesso Garibaldi avesse scritto al proposito che “gli oltraggi subiti dalle popolazioni meridionali sono incomensurabili” e Gramsci che “l’unità non era avvenuta su una base di eguaglianza, ma come egemonia del Nord sul Mezzogiorno”.
Il brigantaggio ebbe quindi varie sfaccettature, comprendendo ovviamente delinquenza comune, ribellione politica e rigetto dell’unificazione-occupazione.
Alla luce di tutto ciò l’intitolazione a Cosimo Giordano del piccolo spazio antistante l’abitazione dove il brigante cerretese visse ha già sortito un piccolo, ma utilissimo risultato: le polemiche che ne sono seguite, anche grazie alla potenza comunicativa dei social network, hanno consentito un’importante opera divulgativa, soprattutto rispetto ad aspetti – ricordiamolo ancora – completamente ignorati nei testi scolastici.
In pratica, ci siamo riappropriati del nostro passato. Obiettivo, quest’ultimo, che come ho scritto in precedenza e ha poi ribadito Gennaro Malgieri (“Non è tardi per recuperare ciò che imprudentemente per tanto tempo è stato ritenuto irrimediabilmente perduto”), avrebbe dovuto caratterizzare l’iniziativa piuttosto che, com’è invece accaduto, caricarla di connotazioni neoborboniche al sol fine di ottenere una maggiore visibilità mediatica.
Anche perchè l’intitolazione a San Martino della piazza antistante l’omonima chiesa, più che uno sgarbo a Vittorio Emanuele II e alla real casa sabauda, rappresenta invece una presa d’atto di una consolidata consuetudine popolare. Quanti cerretesi l’hanno chiamata almeno una volta piazza Vittorio Emanuele II? Allo stesso modo l’intitolazione del corso principale della al conte Marzio Carafa, alla cui visione illuminata si deve l’attuale struttura urbanistica, è un atto dovuto piuttosto che uno sgarbo a re Umberto I. Inoltre, l’intitolazione a Cosimo Giordano dello spazio antistante l’abitazione, più che una celebrazione del controverso personaggio, rappresenta piuttosto un segno d’attenzione verso il fenomeno del brigantaggio, di cui il cerretese Caporal Cosimo fu uno dei principali protagonisti. Uno stimolo, quindi, a fare definitivamente i conti con un passato che va affrontato e metabolizzato, senza lasciare zone d’ombra. Di qui la proposta di creare uno spazio espositivo dedicato al personaggio e avviare contestualmente un percorso di iniziative di approfondimento.
Infine, un piccolo accenno a chi si è scandalizzato per la scelta di intitolare uno spazio cittadino ad un delinquente, dimenticando però che ogni anno, a Vicenza, il Comune depone una corona dinanzi alla lapide che ricorda il colonnello Pier Eleonoro Negri (che guidò l’eccidio di Pontelandolfo) e che al generale Enrico Cialdini (che inviò il battaglione nel Sannio pronunciando la famosa frase “Di Pontelandolfo e Casalduni non rimanga pietra su pietra”) sono tuttora intitolati un monumento e tante strade. A costoro ricordo semplicemente che lo strabismo non giova ad alcuno e che, conseguentemente, occorre affrontare la storia senza pregiudizi.
N.B. = Dimenticavo: a proposito delle scarse potenzialità turistiche di uno spazio espositivo dedicato a Cosimo Giordano e al brigantaggio rispetto ad altri attrattori come la ceramica e l’invidiabile struttura urbanistica, ricordo che un’opzione in più rappresenta un valore aggiunto per un sistema-territorio e non una deminutio.
caro Billy, tutto è sempre recuperabile. Anche per uno stupro di una monaca-bambina si avvierà, giustamente, un dibattito e quindi un ragionamento critico, ma non per questo lo stupro è un fatto auspicabile. Il punto è questo: per ricordare i fatti post-unitari è proprio necessario rivalutare una figura, per lo meno discussa, come quella di capraccosimo? Non sarebbe sato più ‘pulito’ ricordare i tanti contadini vittime innocenti dei bersaglieri? E’ ovvio che tutto fa brodo e qualsiasi iniziativa può implementare il turismo, ma, chiediamoci, le risorse paesaggistiche, architettoniche, artistiche di Cerreto sono tali che si possa pensare di basare il suo sviluppo sui soli ipotetici flussi turistici? Se vogliamo formare una coscienza civica e storica che ci faccia crescere come collettività, la prima cosa che dobbiamo abbandonare è la voglia di divulgare comunque e ad ogni costo, anche affermando cose non documentate e addirittura false. E, bada bene, questi non sono pensieri di un intellettuale nella sua torre d’avorio, ma rappresentano l’unica via per lo sviluppo perchè la verità (e il rigore) sono sempre rivoluzionari.
Caro Nicola, poni questioni serissime, che meriterebbero ben altro spazio che non un semplice commento a un post. Spero presto di poter fare una riflessione più ampia sulle tematiche a cui fai cenno nel commento. Un abbraccio (b.n.)
già è una cosa che si riconosca che le mie siano questioni serissime (non solo rispetto alla toponomastica) e non le si taccino di essere posizioni da intellettuale disorganico o da savoiardo o da passitista. ciao ci vedremo
non credo ti riferisca a me, ovviamente… (b.n.)
ovvissimo