di Amerigo Ciervo
Ho partecipato, qualche giorno fa, nell’aula magna del liceo “Giannone”, all’assemblea convocata dalla CGIL beneventana, il sindacato a cui sono iscritto dal 1983. Si parla del progetto di raccogliere un rilevantissimo numero di firme per presentare una proposta di legge di iniziativa popolare per definire una nuova “Carta dei diritti”. Un’iniziativa necessaria e, a mio giudizio, da sostenere con decisione. Piatto forte dell’incontro è la comunicazione di Emiliano Brancaccio, professore di economia presso l’Università del Sannio, che prende la parola dopo i rituali interventi degli esponenti della segreteria provinciale, Vassallo e Galdiero. Il professore non delude l’attesa demolendo, con lucidità, rigore e, soprattutto, con l’ausilio di dati – se ben ricordo – dell’OCSE e del FMI, le seducenti narrazioni del governo, dei ministri economici, dei tanti economisti, cantori indefessi e in servizio permanente effettivo delle scelte degli ultimi decenni che hanno avuto come risultato, numeri alla mano, l’impoverimento generalizzato e indifferenziato di tutte le categorie dei lavoratori. Senza eccezione alcuna. Nessuno potrebbe dire, per esempio: hanno perso i vecchi ma c’hanno guadagnato i giovani. Nulla. Deserto, macerie e arretramento sul campo dei diritti. A voler parafrasare la celebre distinzione pasoliniana: “sviluppo” pari a zero e la metamorfosi di un “progresso” che si fa obiettivo regresso.
Il docente sostiene che non c’è nessuna correlazione tra la flessibilità dei contratti di lavoro e l’occupazione. I contratti flessibili spingono l’imprenditore a creare posti di lavoro mentre c’è ripresa, ma di quei posti di lavoro il medesimo si libererà alla prima folata di crisi, sicché il risultato tra creazione e distruzione sarà pari allo zero. In più, almeno a leggere i dati ISTAT, nell’anno appena passato, due miliardi di sgravi fiscali hanno prodotto solo trentasettemila posti di lavoro. Il fatto è – sostiene sempre Brancaccio – che ormai tutti ragioniamo come imprenditori e ciò porta a pensare il salario solo come costo e non più anche come fonte di spesa, secondo il ben noto circolo virtuoso (salari più alti uguale a domanda più ricca e articolata, la domanda più ricca genera più produzione, più produzione determina più occupazione e si riprende il giro). Che le narrazioni ideologiche – o, come oggi si dice con più sciccheria, le storytelling, di chi viene profumatamente pagato, al pari di altre innominabili professioni, proprio per creare favole ben imbastite, magnifichino scenari funzionali allo strapotere del capitale, è pratica vecchia quanto il cucco. Da sempre, come sostiene un filosofo, ahimé troppo presto derubricato a vecchio arnese di un mondo che non esiste più, anche da chi farebbe bene a rileggerlo e a ristudiarlo con rinnovato vigore, le idee dominanti sono le idee delle classi dominanti. E tuttavia, per coerenza, occorrerà mettere in evidenza come talvolta capiti che pure chi sostenga buone idee, a queste alterni pratiche politiche e scelte di schieramento quanto meno discutibili o contraddittorie.
La vogliamo dire tutta? C’è una qualche responsabilità di dirigenti e di forze politiche della sedicente sinistra italiana nelle scelte di quelle politiche economiche che hanno determinato lo scenario illustrato, con sintesi magistrale, da Brancaccio? Dal governo Monti in poi cosa ha fatto il PD? Chi ha votato il pareggio di bilancio in costituzione? Chi ha approvato il jobs act? Chi ha votato la legge 107 (quella sulla cosiddetta buona scuola)? Chi ha tentato di far passare, qualche giorno fa, (e, se, come si dice, inconsapevolmente, la cosa è anche più grave) la sciagurata direttiva europea relativa ai mutui? Insomma, chi guida le scelte del governo, ha o non ha a che fare con il PD? Se questo è vero, come è vero, non sarebbe opportuno, quanto meno a livello di facciata, prendere le distanze, standosene alla larga da convention e da iniziative di partiti le cui scelte risultano oggettivamente collidenti con quanto si va affermando nelle assemblee, nelle piazze e nelle lotte? Una decina d’anni fa l’Unità, il giornale fondato da Antonio Gramsci (niente a che fare con l’indecente foglio di propaganda del renzismo dei nostri giorni) pubblicò una lettera di Giuseppe Di Vittorio all’amministratore del conte Stefano Pavoncelli di Cerignola che aveva fatto pervenire al futuro leader della CGIL, per le feste di Natale, un pacco dono.
«Egregio Sig. Preziuso», scrive Di Vittorio, rivolgendosi all’amministratore del conte, «in mia assenza, la mia signora ha ricevuto quel po’ di ben di Dio che mi ha mandato. Io apprezzo al sommo grado la gentilezza del pensiero del suo Principale ed il nobile sentimento di disinteressata e superiore cortesia cui si è certamente ispirato. Ma io sono un uomo politico attivo, un militante. E si sa che la politica ha delle esigenze crudeli, talvolta brutali anche perché – in gran parte – è fatta di esagerazioni e di insinuazioni, specialmente in un ambiente – come il nostro – ghiotto di pettegolezzi più o meno piccanti. Io, Lei ed il Principale, siamo convinti della nostra personale onestà ma per la mia situazione politica non basta l’intima coscienza della propria onestà. È necessaria – e Lei lo intende – anche l’onestà esteriore. Se sul nulla si sono ricamati pettegolezzi ripugnanti ad ogni coscienza di galantuomo, su d’una cortesia – sia pure nobilissima come quella in parola – si ricamerebbe chi sa che cosa. Si che, io, a preventiva tutela della mia dignità politica e del buon nome di Giuseppe Pavoncelli, che stimo moltissimo come galantuomo, come studioso e come laborioso, sono costretto a non accettare il regalo, il cui solo pensiero mi è di pieno gradimento. Vorrei spiegarmi più lungamente per dimostrarle e convincerla che la mia non è, non vuol essere superbia, ma credo di essere stato già chiaro. Il resto s’intuisce. Perciò La prego di mandare qualcuno, possibilmente la stessa persona, a ritirare gli oggetti portati».
Al di là dello stile di scrittura di un bracciante autodidatta – che certamente non aveva letto la Critica della ragion pratica (l’opera kantiana sulla morale) -, ciò che colpisce è il rigoroso concetto di dignità, la medesima dignità con la quale aveva insegnato ai braccianti agricoli a non togliersi il cappello davanti al padrone. Qualcuno dirà: altri tempi. Ma, forse, certe lezioni si staccano dai contesti temporali per divenire veri e propri axiomata vitae, verità indiscutibili dell’esistenza, oramai, da troppo tempo, smarritesi nel labirinto postmoderno delle nostre ridenti contrade.