di Giancristiano Desiderio
Tutto ciò che conta è il controllo e l’abbandono della palla. Il calcio è troppo importante per lasciarlo ai calciatori, agli allenatori, ai presidenti, ai commentatori. “Il calcio è una metafora della vita” disse con compiacimento Jean-Paul Sartre. Non è vero. E’ la vita ad essere una metafora del calcio. Il gioco del calcio ci dà un modello cognitivo per capire noi stessi, la condizione umana e mettere in fuorigioco il pericolo sempre presente nel pensiero e nell’azione: il totalitarismo.
Mi sono intrattenuto sul tema più volte, ma vorrei provare ancora una volta a mettere la palla in gioco e disputare l’unica partita della vita che non si può interrompere appendendo le scarpette al chiodo. Vorrei provare a dire in poco spazio molte cose in modo chiaro. Ciò che è in gioco è una riforma dell’idea di essere. Ci provo.
Nel controllo e nell’abbandono c’è il modo in cui in Occidente sono stati concepiti pensiero e azione. Prima di tutto il controllo. Per giocare a calcio – a pallone – è necessario controllare la palla: riceverla, fermarla, possederla, padroneggiarla, signoreggiarla. Chi non sa controllare la palla non può giocare. Il controllo è necessario per essere giocatori e per essere uomini. Anche nell’esistenza abbiamo bisogno di controllare la palla ossia la vita. Il controllo della vita è l’aspirazione del pensiero fin dal suo apparire come verità della vita o filosofia. Il controllo della vita è la conoscenza nelle sue varie forme: comuni, semplici, complesse, dottrinali, scientifiche.
Il controllo, però, non è assoluto e non è finalizzato al controllo medesimo. La palla è controllata per essere messa in gioco, come la vita è controllata per essere vissuta. Il controllo assoluto fine a se stesso è la fine del gioco, come sarebbe la fine della vita civile e libera. L’idea del controllo totale può andar bene per la caserma e per l’ospedale e nessuno vuole trascorrere tutta la vita in caserma o in ospedale. Il controllo fine a se stesso concepisce l’essere come un sistema di sicurezza mentre il controllo finalizzato al gioco è un sistema di insicurezza. Si controlla la palla per giocarla, si controlla la vita per viverla. Dunque, dopo il controllo l’abbandono.
Mettere la palla in gioco significa abbandonarla ossia passarla al compagno, affidargliela con il rischio che cada nel controllo dell’avversario che a sua volta la gioca con il rischio che cada sotto il controllo dell’altro avversario. Ogni giocatore è, infatti, sé e altro da sé, se stesso e avversario, identico e diverso (come mise in luce da subito Platone, il più grande numero 10 di tutti i tempi, appena fuori dalla Caverna).
Il passare dal controllo all’abbandono, tramite contrasti e perdite, cadute e risalite, vittorie e sconfitte, è il frutto del gioco che nessuno realmente domina in modo totale. Il conflitto è insito nel gioco e l’idea di superarlo con un superiore sapere conciliatore è un rimedio peggiore del male. Controllo e abbandono della palla/vita significa che nessuno è padrone assoluto della palla/vita. Se ci fosse un padrone assoluto o totale della palla/vita non si potrebbe più giocare/vivere. L’assenza di una padronanza assoluta del gioco è la condizione per poter giocare. Allo stesso modo accade nella vita: l’assenza della padronanza assoluta della vita è la condizione per vivere. Il gioco tutela conflitto e pluralità che sono la radice della libertà.
Controllare e abbandonare la palla/vita significa giocare/vivere e la pretesa di ridurre e ricondurre la palla/vita a una struttura razionale posseduta dalla conoscenza della mente – il tipo di conoscenza è indifferente – è sconfessata giacché se ne mostra l’arbitrio, la tracotanza, il danno. Ciò che fa sì che la mente non nutra il sogno sbagliato del delirio di onniscienza e di onnipotenza è proprio il gioco che non si lascia trasformare in una struttura razionale e quindi non si lascia ricondurre al possesso – né mentale né pratico – cosicché quando è anche solo sfiorato dalla tracotanza si ritrae lasciando di sé un vuoto. Il gioco ci fa pensare l’essere in maniera differente e non ci fa cadere nel totalitarismo. Lo storicismo crociano – un umanesimo tragico con al centro l’idea dell’umanità libera creatrice di se stessa – gioca questa partita decisiva nella storia del pensiero. Il modello dell’essere come sistema di sicurezza ha qui lasciato il campo al modello dell’essere come controllo e abbandono.
“Il contropiede – ha detto una volta César Louis Menotti – è come l’amore: s’incontra, non lo puoi pianificare”. Non è solo il contropiede a non essere programmabile. E’ tutto il gioco del calcio che sfugge alla logica della piena razionalizzazione. Non a caso le partite altamente programmate sono partite bloccate che sono sbloccate e risolte da ciò che è sfuggito alla logica del piano. La partita Juventus – Napoli risolta da un gol di Zaza in contropiede è una di queste partite. Non è questione solo di fantasia o di genio. E’ il gioco in sé che non è completamente razionalizzabile e costringe a mutare l’idea stessa di ragione e il rapporto tra essere e pensiero.
Il gioco del calcio ci mostra in modo esemplare la condizione umana che tramite il gioco del pallone interpreta se stessa. Il pallone che è messo in gioco – giocato – è la verità/vita che per essere detta o conquistata va messa in gioco. Il saper controllare e abbandonare la palla/vita per giocarla è la consapevolezza che si è se stessi nell’altro, è la coscienza che la luce è insieme ombra, che la ragione è l’equilibrio delle passioni, che l’essere conserva il divenire per non lasciarlo al completo dileguamento nell’inconsistente e nell’irrelato. Il passaggio del pallone – controllo e abbandono – è il pensiero che esprime la verità e la lascia essere per continuare a fare l’unica cosa che ci è dato fare: vivere/giocare senza nutrire l’incubo dell’onnipotenza, in qualunque veste, metafisica o, peggio, secolare si presenti ai giocatori che sempre siamo. E’ tutto ciò che conta.