di Amerigo Ciervo
La sera di domenica scorsa, un mio post su Doveri (l’arbitro che, nel pomeriggio, aveva infaustamente diretto Napoli-Carpi, danneggiando, sia pure non in egual misura, entrambe le squadre) suscitò una piccola discussione tra alcuni amici di FB. E poiché stiamo vivendo quasi una settimana santa anticipata, avendo in pratica saltato i quaranta giorni della quaresima, mi piacerebbe chiarire, ad usum di alcuni miei amici (tra i quali, moltissimi juventini) come io viva l’esperienza calcistica e quanto quest’esperienza mi serva per comprendere certe cose del mondo.
Io tifo per il Napoli dal 1961, dopo un Napoli-Juventus, che si giocò nel nuovo stadio di Fuorigrotta, con la vittoria dei bianconeri per 4 a 0. Sivori – lo stesso giocatore che cinque anni dopo sarebbe diventato l’idolo di quel medesimo campo – quel giorno maramaldeggiò con una tripletta.
Si può tifare per una squadra perché perde? Certo, è più complicato, ma si può. Se non fosse possibile, in prima media, leggendo l’Iliade nella – allora, per noi – terrificante traduzione di Vincenzo Monti, saremmo stati tutti dalla parte di Achille. Ma c’erano anche – pochi – quelli che si commuovevano leggendo: “Deh fate/Che il veggendo tornar dalla battaglia/Dell’armi onusto de’ nemici uccisi,/Dica talun: Non fu sì forte il padre:/E il cor materno nell’udirlo esulti”.
Insomma io sono per Ettore e per il Napoli. E scelsi la squadra azzurra dopo aver visto mio padre quasi con le lacrime agli occhi – lui sempre così sicuro e forte – all’annuncio ferale della radio. Un ricordo ancora molto vivido: eravamo nella stanza da pranzo della bellissima casa settecentesca di via Sannita in cui vivevamo (in affitto). Avevo appena fatto la prima comunione. Lui mi spiegò che “queste squadre del nord c’hanno molti soldi e che i soldi, solitamente chiamano altri soldi”. In ogni caso, tagliò corto mia madre, “se casa nostra andasse a fuoco ci verrebbero a salvare i pompieri di Napoli, mica quelli di Torino”.
A ben riflettere, le motivazioni dei miei genitori in favore della scelta per il Napoli sono ancora oggi al centro del problema. Vince, di solito, chi ha più possibilità economiche, chi riesce a darsi una struttura – posso usarlo, il termine? – taylorista, chi riesce a governare la grande novità delle società contemporanee, ossia a indirizzare l’opinione pubblica, con i giornali, con le televisioni, con i social, a far credere alle masse che sì, che è necessario, utile e anche giusto che le cose vadano in tal modo. Provate a chiedere a molti giovani che cosa pensino del fatto che una sessantina di persone posseggano l’equivalente di altre tre miliardi e mezzo di persone. La maggioranza vi risponderà che è giusto, che quei sessantadue sono stati bravi e che le cose sono andate sempre così. Il capitalismo come sistema “naturale”.
Avrete notato che quando non si vuol cambiare qualcosa si ricorre, come a un toccasana, all’aggettivo “naturale”. Sicché la questione che pongo è: se nel mondo le cose funzionano così perché mai nel calcio – nel settore, cioè, di cui, a livello europeo, si studiano addirittura i famosi fatturati: una parola che, per i nostri avversari, sembra avere la stessa funzione dell’aglio per i vampiri – dovrebbero andare diversamente? E infatti, di solito, non vanno diversamente. Ma capita pure, ogni tanto – poche volte – che la storia si diverta, prendendosi gioco delle certezze consolidate. Capita che un allenatore, appena arrivato nella massima serie, rude e poco elegante nel vestirsi, riesca a costruire una squadra bellissima da vedere, ma anche in grado di mettere in fila risultati utili e numericamente indiscutibili. Allora se è possibile nel calcio, potremo pensarlo possibile anche in altri spazi, ben più importanti, della nostra vita? Vedremo.
Al di fuori di questa dimensione, il calcio, per me, non altro significato. A che serve perdere tempo a discutere sulla contrapposizione, per esempio, di giocatori, come spesso fanno quei luoghi demenziali e sostanzialmente inutili che sono alcuni quotidiani sportivi? Ma davvero pensate che un qualunque amante del calcio, sia pure tifoso del Napoli, non sappia apprezzare la illuministica clarté di Platini (del Platini giocatore, ovviamente), la sublime creatività di Sivori, la tranquilla grandezza di Scirea o, per stare all’oggi, l’unicità straordinaria di un portiere come Buffon? Ma sapete bene che Juve-Napoli è solo in parte questo. Oggi, per noi, vincere il “duello” significa pensare di poter dare l’assalto al cielo rinunciando al taylorismo, insieme coniugando bellezza e follia, come da millenni si fa nella città in cui questo miracolo potrebbe – finalmente – avvenire.
E forse è proprio questo che gli italiani, che negli stadi innalzano i loro laidi cori al Vesuvio, non perdonano a Partenope, probabilmente non sopportandone bellezza e follia. Ma noi siamo consci che Achille ha un solo punto debole e, per questo, vince sempre. Ettore, viceversa, ne ha moltissimi, e tuttavia non parte necessariamente sconfitto. Combatterà, nel campo avverso, con animo forte e con cuore puro. E sappiamo anche che è la storia, talvolta, a divertirsi a sparigliare, stravolgendo i finali di partita. Non dovesse accadere? Ci proveremo di nuovo.