di Giancristiano Desiderio
Se l’esistenza è tempo, altro da fare non c’è che non perdere tempo. I giovani, in omaggio alla verde età e al sentimento di eternità che li visita, declinano il tempo al futuro ripromettendo a sé e agli altri: “Faremo!”. Ma quando si entra nell’età della vita in cui i giorni non vanno ma vengono, si avverte più fortemente il bisogno di attuare il “tempo presente” affinché non sia un “tempo perduto”. Ci sono stagioni e momenti della vita in cui è giusto illudersi e lasciar fare all’opera del tempo, ma col passare degli anni subentrano altre epoche e pensieri in cui l’illusione cede il passo al disinganno e si scopre che il valore e il senso dell’opera del tempo è il tempo dell’opera.
Il centro del nostro essere ruota intorno alla necessità di sentirsi vivere lavorando perché è mettendo in opera la vita che la vita, verde o stanca, si lascia fare, vivere e pensare. Anche le pause del (meritato) riposo e perfino il dolce far niente acquistano senso e sono realmente riposo e dolcezza nella vita che è stata arata come un campo di grano. Scrivo queste cose a mo’ di abbozzo di una specie di autobiografia dell’intelletto e le scrivo più per me che per gli altri – a chi mai potrebbero interessare? – o le annoto mihi et amicis paucis.
Se l’esistenza umana non fosse creativa vivremmo in paradiso. Ma il paradiso terrestre – che poi significa essere presso gli dei – è un mito che, nato dall’orrore per il nulla, annulla il tempo nell’eternità. La condanna biblica – “Lavorerai!” – altro non è che la condizione umana che ci appartiene e alla quale apparteniamo dall’inizio alla fine del tempo che ci è toccato in sorte di vivere come uno spicchio di eternità. I miti sono il tentativo disperato di fuggire dalla condizione umana o verso il passato – l’età dell’oro, l’isola dei beati – o verso il futuro – la salvezza eterna, la società perfetta. In entrambi i casi c’è l’illusione di liberarsi del fattore più propriamente umano che ci offre, come un dono, la possibilità di liberarsi sempre momentaneamente delle falsità e delle sofferenze: il lavoro. Il dovere di essere e pensare esiste e insiste nella condizione nella quale siamo, così il tentativo di trovare una via di fuga verso gli dei per essere Dio tra Dio è una passione sbagliata o vana se non sorretta dalla coscienza che l’esistenza umana è tempo lavorato.
L’ultimo libro pubblicato – La verità, forse. Piccola enciclopedia del sapere filosofico dai Greci allo storicismo – chiude un periodo ma inevitabilmente ne apre un altro. La fase che si è conclusa è stata prolifica, pur tra non poche avversità. Ma attendere che il vento avverso cessi è attendere invano. A chi gli consigliava riposo e lo invitava ad aspettare che il dolore alla testa passasse per poi mettersi all’opera, quel sant’uomo di Alfonso, che sul collo storto avvertiva il peso del massiccio del Taburno, rispondeva che se per lavorare e per scrivere avesse dovuto attendere la fine delle sofferenze non avrebbe mai combinato niente. Il lavoro si compie nel bel mezzo della battaglia perché il sale della vita risiede proprio nella dialettica dell’avversità in cui la volontà trae forza dalle debolezze e dagli infortuni e la verità si illumina degli stessi errori del mondo.
Il lavoro degli ultimi tempi è il risultato del lavoro dei primi tempi secondo una linea di pensiero e azione che mi permette di sentirmi esule in patria. Il concetto della verità come storia mi inchioda al legno storto dell’umanità e fa cadere anche l’ultimo dente di un pensiero ruminante che pretende conoscere a partire dai pensieri mentre il pensiero non nasce dal pensiero ma dalla vita che fa male e fa bene e dalla storia che siamo e che ci sfugge, come la poesia non nasce dalla poesia ma dall’aiuola terrestre che ci fa feroci e sognatori, santi e peccatori, come il pane che non si fa col pane ma con la farina che, lavorata, diventa buona come il pane da mettere sotto i denti per mangiarlo con quel companatico che è la vita stessa che chiede di essere divorata e saziata.