di Antonio Medici
Roberto Mancini, 51 anni da Jesi, ex giocatore talentuoso del Bologna, della Sampdoria e della Lazio, oggi allenatore con esperienza internazionale, è un finocchio. Beninteso, non perché all’insulto di Sarri (“frocio”) ha opposto una reazione che ricalca lo stereotipo della checca isterica, ma perché il suo stile e pure il suo talento è ben rappresentato dal comune eppur altezzoso ortaggio.
La perenne sciarpetta di tessuti setosi sempre avvolta attorno al collo con pieghe morbide, il vezzo della tintura dei capelli, fini ma belli folti e fluenti che lo jesino ha cura di far notare costantemente carezzando il poderoso ciuffo, cos’altro sono se non una trasposizione della barbetta pavoneggiante del finocchio? Un’appariscenza esuberante; nel finocchio come in Mancini l’apparenza soverchia la sostanza. Il grumolo del finocchio (ciò che noi comunemente mangiamo o cuciniamo) è aromatico, pungente, originale, un sapore riconoscibile eppure incompleto, insoddisfacente. Ci si possono fare degli ottimi sughi, ma non saranno mai sublimi.
Del pari l’attaccante doriano (è principalmente della sua esperienza in Samp che resta memoria) ha giocato ottimi campionati, dipinto meravigliosi assist, segnato bellissimi gol ma non è mai andato oltre, senza il supporto di un altro attaccante (e fu Vialli) non avrebbe forse fatto un granché. Il suo ruolo, non a caso, era mezza punta (oggi si usa dire, con minor efficacia figurativa e maggior dignità, trequartista). Anche come allenatore, diciamolo, ha mietuto mezzi successi come nel caso del titolo della Premier League, agguantato nel 2012 per alchimie regolamentari, avendo chiuso la stagione a pari punti con lo United di Ferguson, e nel campionato italiano dove quest’anno ha collezionato 9 vittorie per 1-0.
Mancini è un finocchio nella forma e nella sostanza, insomma. Viaggia agghindato e felpato, appariscente e mezzano. E se la simbologia del finocchio richiama un orientamento omosessuale lui è coerente anche in questo: le reazioni sono sempre tipiche della checca isterica. Basti ricordare il trattamento che riserva ai giocatori che esplicitano insoddisfazione o insofferenza per le sue scelte. La lista degli epurati è lunga e credo dia torto al Mancio.
Se Mancini è un finocchio, Sarri è una ribollita. Verdure povere e pane, quantità che sfama ma non nutre. Piatto banale e volgare, nel senso etimologico del termine. Sarri è lo stereotipo della zuppa: fa massa (il suo gioco è vivace, tutto movimenti, incroci, ritmo), incanta gli occhi ma non vince. Alla prima sconfitta decisiva, non a caso, il sangue del serafico Sarri, quello che ha sapientemente dichiarato di guadagnare già troppo per un lavoro che avrebbe fatto gratis a fine giornata, ha ribollito sino a sbottare. E ciascuno quando sbotta rivela il peggio di se.
Scalare le leghe e le classifiche, però, dovrebbe anche servire ad emanciparsi dal clima tribale del gioco di strada, ad imparare a stare al gioco con correttezza, a domare la bestia interiore. Lo sport professionistico è business, è show, non è oratorio e tantomeno asfalto e brecciolina. Un professionista, un allenatore di una squadra pro tempore in testa al maggior campionato nazionale, le cui parole sono in ogni caso amplificate e usate dai tifosi e dai media, non può insultare l’avversario, mai, con nessun epiteto.
Eppure molti si identificano in Sarri, probabilmente perché è facile, egli rappresenta la parabola dell’uomo senza talento, nemmeno quello minimo di Mancini. Le maggiori doti del dirigente di banca finito per ora in testa alla Serie A, decantate in queste ore dalla stampa tifosa, sono la meticolosità, l’aver fatto gavetta, l’empatia che è capace di creare con il mitico ambiente e con i giocatori. Tutte quelle cose, insomma, di cui si parla per dar lustro ad un perdente, perché temo che Sarri perderà come l’altra sera ha perso sul campo e fuori, essendo stato sconfitto in casa in una partita senza appello ed avendo denunciato di non saper accettare la sconfitta.
Al San Paolo, per i quarti di finale della Tim Cup, Inter batte Napoli 0 a 2. Reti di Jovetic al 29’ s.t. e Ljajic al 47’ s.t.