di Giancristiano Desiderio
Il filosofo selvaggio – protagonista di questo pezzo selvatico e civile – non crede a una filosofia che sia fuori di testa e fuori dal mondo, in una spelonca al riparo dalla battaglia che infuria nell’esistenza della vita e della terra. Il filosofo selvaggio sta in mezzo alla vita che è molto più simile a un esercito schierato in battaglia che a un coro di voci bianche. Il filosofo selvaggio non si alza al di sopra della mischia per guardare tutti dall’alto in basso e dire, con un sorriso superbo e teologico, siete tutti dei poveri stronzi, ma sta nella mischia e con la forza delle tempie e i battiti delle vene si adopera per distinguere opere e idee, fatti e intenzioni, uomini, possibilità e impossibilità. Per il filosofo selvaggio – che è un popolare signore senza ubbie e senza borie, che sa di che lagrime grondi e di che sangue lo scettro e non solo lo scettro – il posto del pensiero non è la stitica università ma le vie del mondo che non son fatte di entità astratte ma di carne viva e di passioni che si dilaniano e chiedono un po’ di luce per continuare a dilaniarsi. La filosofia non è un anestetico da usare per addormentare le passioni e sopportare i dolori perché, al contrario di quanto comunemente si creda, ha proprio nelle passioni e nei dolori la sua origine. La filosofia non viene al mondo per cambiare il mondo – che è una delle idee più cretine mai messe al mondo – ma per leccargli ogni tanto le ferite che il mondo umano irrimediabilmente si procura per continuare a vivere e a soffrire giacché non c’è vita senza sofferenza.
L’idea che la filosofia sia un surrogato della religione e debba dire no al mondo e voltargli le spalle non appartiene alla storia della filosofia – e neanche della religione – ma tutt’al più alle fissazioni di qualche eunuco del pensiero che come è apparso così è scomparso perché il mondo, così pieno di vita e di energia e di potenza, va avanti per i fatti suoi e non aspetta che un filosofo o, peggio, un intellettuale o, per carità di dio, un politico gli costruisca la strada ferrata sulla quale camminare come un trenino elettrico o come i vagoni piombati per Auschwitz o per Kolyma. Il pensiero senza carne viva gira a vuoto, così l’unica cosa sensata che può fare è pensare la storia secondo accadimento. Con un senso disperato della sua funzione, il pensiero prova a mettersi alle spalle delle cose che accadono per creare il futuro ma l’unica cosa che è capace davvero di fare è ricreare il passato. Il pensiero entra in gioco quando i giochi sono fatti. E non è né un modo di dire né una tanto bella quanto vana stranezza. Il pensiero selvaggio, impiantato nel cuore della vita, non può far altro che raccontare una storia. Anche se selvaggio, il pensiero addolcisce.
E’ tutt’altro che un ruolo comodo perché i drammi, le sofferenze, le morti alle quali ricorre la stessa vita per continuare ad essere bella, interessante e terribile chiedono di essere prese e com-prese ossia di essere momentaneamente intese e riunite alla loro qualità per liberarsi di lacrime e passioni, avventure e tragedie per poi ridarsi nuovamente in pasto nude alla cruda vita che non aspetta altro che pugnalarsi e sbranarsi e vivere nuove avventure e tragedie. Il filosofo, selvaggio o civile che sia, non è insensibile alla vita ma, al contrario, è più che sensibile e non insegna come attraversare il gran mare dell’essere mettendosi al riparo dalla burrasca ma inoltrandoci l’occhio dentro e mostrando che non c’è mare senza tempesta.
L’idea che la filosofia debba servire a metterci al riparo dai rischi della vita appartiene a un vecchio pregiudizio della tradizione della storiografia filosofica. Certo, a nessuno piace mettersi nei guai e come c’è un tempo per avere una vita spericolata così c’è un tempo per avere un’esistenza equilibrata. Tuttavia, queste sono stronzate che si trovano anche nei luoghi comuni i quali, peraltro, è giusto che abbiano la loro dose di verità come ce l’hanno tutte le cose nate e cresciute con quella madre superiora dell’esperienza. La filosofia non serve né a metterci nei guai né a salvarci dal mondo ma ad affrontare la vita che a conti fatti è il problema più vitale che abbiamo finché campiamo.
Il vecchio pregiudizio deriva dalla concezione metafisica della verità di un essere tutto calmo e tutto placido che se ne sta in panciolle in un Altrove e nell’indifferenza rispetto ai destini dell’umanità che soffre e muore ma si salva se impara a pentirsi, purificarsi e farsi perdonare. Ma è una caricatura dorica e apollinea della filosofia antica che non riguarda né la presunta malattia socratica né la stessa concezione dell’essere che riposa su una irrazionalità dionisiaca che rende necessarie le forme ossia una decenza e una moderazione degli istinti per non scannarsi come degli animali o degli eroi. Una volta sollevato il velo del pregiudizio, adottato in pianta stabile dalla tradizione del cattolicesimo romano, ciò che appare è – miracolo dei miracoli! – l’essere sotto forma di idea che si rivela al pensiero. Ma questa dimensione apparentemente statica della verità dell’essere è completamente ri-vista dalla modernità che, passata attraverso l’umanesimo, ha sviluppato una più acuta funzione del pensiero che non riceve la verità dall’idea ma è esso stesso la verità dell’essere che si manifesta dopo che ha fatto le capriole e il bello e il cattivo tempo nell’esistenza storica di ognuno di noi. Vogliamo dirlo con parole comuni? Il fatto si converte nel vero. Il concetto non è una creaturina intellettualistica del professorino dei miei mocassini ma la stessa esistenza delle cose, con tutta la sua selvaggia passione, che arriva a conoscersi e a dire la verità. Perché quella cosa strana e platonica che si chiama idea è l’umanità stessa che è in grado di conoscersi perché il pensiero assume in sé dei predicati che sono gli stessi atti con cui l’esperienza ha trasformato se stessa e il mondo. La nostra vita è fatta di caverne e cunicoli, sotterranei e scantinati e ogni tanto è necessario scendere in questi regni laboriosi, che lavorano come officine primitive al di là della nostra stessa volontà, per tirarne fuori paradossalmente un po’ di luce nel tentativo necessario di tenere insieme giorno e notte. Il pensiero ha per suo contenuto la storia come si è fatta e la mostra attraverso i predicati del giudizio che hanno il compito di prendere, afferrare, possedere, concepire ossia mettere il mondo al mondo una seconda una volta sul piano del pensiero dopo che la prima volta è nato sul piano dell’azione.
Quell’altra cosa strana che chiamiamo assoluto non è una stella fissa in cielo ma una catena di montaggio e smontaggio dell’esistenza, è questa continua produzione e conoscenza di sé che inevitabilmente è qualcosa di selvaggio e selvatico come è selvaggio e selvatico venire al mondo, starci dentro e uscire di scena.