di Giancristiano Desiderio
Se l’Italia non è stato il paese della Riforma bensì della Controriforma, s’immagini cosa sia stata la terra sannita che Giuseppe Maria Galanti, l’illuminista di Santa Croce del Sannio, vedeva come un unico grande monastero. La Chiesa cattolica è stata l’unica presenza religiosa che si è innestata sul naturale paganesimo e, magari, sul magismo tipico della “civiltà contadina” nella quale Cristo si fermò ad Eboli. Tutto ciò che esulava dal cattolicesimo come religione ufficiale era di fatto e di diritto un’eresia. E, naturalmente, le eresie principali e più pericolose erano proprio quelle che si originavano dal seno stesso della madre chiesa e dal cristianesimo. Quale fu il torto di ogni eretico – ossia di ogni protestante? Mettere in discussione e rifiutare il potere del prete e la chiesa come istituzione salvifica. Nella terra beneventana, dove tutto ricadeva sotto il dominio temporale dello Stato della chiesa, il luterano, il calvinista, il valdese erano né più né meno che il diavolo proprio perché la loro stessa presenza prefigurava prima o poi la fine del potere temporale della Chiesa.
Prima dell’unità d’Italia è arduo se non impossibile trovare nel Sannio i valdesi. Durante il potere papale nel Sannio la parola “valdese” è usata come sinonimo di eretico e la religione evangelica è a tutti gli effetti il demonio. I valdesi a Benevento, se ci furono, fecero la fine delle castagne arrosto. Nella metà del Cinquecento il vescovo di Sant’Agata dei Goti, Giovanni Guevara, che curava la questione valdese in particolar modo, sollecitava il clero ad avere attenzione “…hereticos et scismatico set abnegantes deum publice…”. Con la fine del potere temporale della Chiesa le cose cambiarono parzialmente. I valdesi nel 1848 videro riconosciuti i loro diritti civili dallo Statuto Albertino e quando lo Statuto divenne la carta costituzionale del Regno d’Italia la libertà di culto fu riconosciuta in tutto il nuovo Stato nazionale europeo. I valdesi fecero la loro apparizione anche nel Sannio.
Michele Selvaggio e Pasquale Carlo con il libro Castelvenere Valdese (Edizioni Realtà Sannita) ci offrono un lavoro puntuale e documentato sul caso particolare del borgo di Castelvenere gettando un po’ di luce anche sulle contrade limitrofe e senza cadere in un angusto municipalismo. La prima stazione valdese sorse nel 1868 a Fragneto l’Abate. Il predicatore Gregori, proveniente da Napoli, fu ospitato dalla famiglia Mascia, erano ebanisti e falegnami. Il prete del paese non perse tempo: “… andatevene, voi siete una bestia, un lupo…”. I Mascia passarono un brutto quarto d’ora. Un’altra presenza si ebbe a San Bartolomeo in Galdo: qui le prime prediche domenicali furono tenute da un ex prete del posto, Pasquale Colatruglio. Tuttavia, la storia valdese più importante si ebbe a Castelvenere con la nobile figura politica e religiosa di Eliseo D’Onofrio. Le pagine più belle dello studio di Michele Selvaggio e Pasquale Carlo sono proprio quelle dedicate ad Eliseo D’Onofrio che con la sua fede al contempo religiosa e risorgimentale improntata alla libertà dello spirito umano fece nascere a Castelvenere stabilmente il culto valdese con la presenza della chiesa, della scuola, dei riti funebri: una storia significativa che avrà una vita lunga mezzo secolo prima di essere riassorbita dall’ambiente d’origine. “Noi fratelli – scriveva Francesco Iannucci ricordando in una lettera a Ernesto Giampiccoli il primo incontro con i valdesi a Roma in occasione dei funerali di Vittorio Emanuele II – inanimati da queste sante parole gli chiedemmo una Bibbia, e quello ci diede la Bibbia grande del pulpito che costò 25 franchi. Tornati al nostro paese di questa Sacra Bibbia ne incominciammo a fare buon uso, tanto che poco dopo ci recammo a Napoli all’indirizzo di detta Chiesa Valdese presieduta dal Pastore Giovanni Ponzio e presedemmo al culto”. Anche la sola lettura della Bibbia era un atto rivoluzionario e, del resto, la Riforma ruota tutta intorno alla lettura, interpretazione e diffusione della Bibbia senza la mediazione e il sequestro dell’autorità sacerdotale. Nell’Ottocento, in Italia, in piena età risorgimentale, chi si opponeva alla lettura e diffusione della Parola del Signore in lingua italiana, che in quella libera circolazione e interpretazione vedeva – giustamente! – un serio pericolo per il suo potere temporale, era la Chiesa (ancora oggi i cattolici sono coloro che meno leggono la Bibbia). Grazie a Eliseo D’Onofrio – che diventerà anche sindaco del paese – a Castelvenere cominciò a circolare la Bibbia nella traduzione italiana di Giovanni Diodati. Una vera e propria rivoluzione. La controrivoluzione, nella forma classica della controriforma cattolica, non tardò a venire.
I valdesi di Castelvenere non ebbero mai la vita facile e proprio alla luce delle avversità del clero locale la loro fede e la loro attività acquista ancora più valore. Al lettore ora non posso sottoporre la “Risposta all’arciprete di Castelvenere” scritta da Eliso D’Onofrio ma gli autori del libro la riportano per intero e lì si potrà gustare in tutta la sua elementare bellezza. Un miracolo di libertà di fede. Ma bisogna stare attenti a parlare di miracoli perché nella reazione cattolica gran parte ebbero proprio i miracoli.
Sul finire dell’Ottocento, qualche mese prima della prematura scomparsa di D’Onofrio, a Castelvenere sull’onda di un clima di suggestione e fanatismo collettivo, si avviarono gli Scavi per la ricerca sottoterra di una Madonna. Venne alla luce una medaglietta, una falda acquifera che fece subito gridare al prodigio dell’acqua benedetta e miracolosa, e perfino – forse, questo fu il vero miracolo – una palafitta. La stessa diocesi di Cerreto Sannita fu presa di sorpresa e cercò di raffreddare gli animi, ma in poco tempo il paese – a circa mezzo secolo dai fatti di Lourdes – si ritrovò al centro di un caso internazionale e lo stesso parroco Bartolomeo Ferri gridò al miracolo perché si sentì alleviare il peso della gotta che lo tormentava da anni. A descrivere il clima di isteria generale giunse in paese anche Salvatore Di Giacomo che per L’Illustrazione italiana scrisse una gran bel pezzo: “Vivevano tutti tranquillamente ed attendevano alla fatica dei campi: ora quasi non vivono più, poi che questa che li consuma non è vita: essi sognano a occhi aperti, vegliano si struggono, palpitano, si macerano, come i loro predecessori che un tempo si accesero in lotte tra cattolici e protestanti, per cui la borgatuccia di Castelvenere è rimasta famosa”. Il poeta napoletano in veste di giornalista dovette, come si capisce, conoscere le lotte religiose e civili del paese e ne fece menzione. Ma in quelle lotte sulla misteriosa e ormai leggendaria palafitta di Castelvenere – anche la scienza positivista del tempo ci mise del suo per confondere ancor più le acque miracolose e la palafitta come apparve così scomparve – proprio i valdesi, la cui fede si voleva sotterrare con la palafitta, mantennero dignità e contegno: anche quando nel 1908 a Castelvenere si riprese forsennatamente a scavare in cerca di chissà che, forse di una fede perduta che nella cultura meridionale è sempre oscillante tra la delega e il fatalismo.