di Nicola Sguera
Nella voce Wiki dedicata al suo paese d’origine, Sant’Agata de’ Goti, un magnifico borgo capace di preservare le sue antiche bellezze, Giancristiano Desiderio viene definito «giornalista [scrive per «Il Corriere del Mezzogiorno» e «Il Giornale»], saggista e filosofo. Nel 2014 vincitore del Premio Acqui Storia con il libro Vita intellettuale e affettiva di Benedetto Croce». La voce risulta incompleta perché Desiderio è anche uno storico che proprio al suo paese d’origine ha dedicato un’opera. Ci troviamo, è abbastanza evidente, di fronte ad un’anomalia, in un paese come l’Italia in cui, con sparute eccezioni, la filosofia si identifica (purtroppo!) con la vita accademica, producendo libri spesso di grande pregio erudito ma completamente slegati dalla vita e dal proprio tempo. L’anomalia dell’autore è anche stilistica, prediligendo una scrittura saggistica tanto raffinata quanto aliena da tecnicismi e specialismi e i suoi libri presentandosi per lo più privi di apparati di note che ne appesantiscano la lettura. Desiderio è anche uno tra i maggiori conoscitori in Italia del pensiero di Benedetto Croce, che – accanto a Berlin – può essere considerato l’auctor di riferimento (anche nella poliedricità della sua produzione). Per completare la descrizione dell’anomalia aggiungo che viene annoverato tra gli esponenti della cosiddetta pop-sofia, soprattutto in virtù di una trilogia di libri (poi raccolti ne Il divino pallone, Vallecchi) dedicati ad una rilettura filosofica del calcio. Infine, ossimoricamente, pur essendo critico feroce della scuola “statale” dispensatrice di diplomi e teorico dell’abolizione del valore legale del titolo di studio, è docente di storia e filosofia nei Licei statali.
In tale complessità è facile però riconoscere proprio nella filosofia l’elemento unificante della solo apparentemente babelica produzione di scritti di Giancristiano. In ogni suo pezzo, anche quelli apparentemente più cronachistici, batte una visione complessiva della realtà che non si può non definire filosofica, e che in una attualizzazione del crocianesimo trova la sua cifra più peculiare. Un Croce, come emerge dalla fortunata biografia intellettuale, liberato dai cascami hegeliani, un Croce maestro di libertà e di realismo nello stesso tempo.
Se dovessi, dopo anni di confronto con Giancristiano, scegliere la parola-chiave della sua opera non avrei esitazione: libertà. Desiderio è, nella sua essenza, un pensatore politico. Ciò che più gli sta a cuore, anche quando parla di calcio, è veicolare una visione della politica che, leggendo la realtà “fattuale”, sia strumento di trasformazione, non “visione”, “profezia”, “utopia”. E per questo che era necessario scrivere un libro dedicato al problema della verità. In realtà, se andiamo ai primordi della filosofia occidentale vedremo come Platone muova dalla stesso bisogno: rifondare la politica rifondando la gnoseologia e l’ontologia, contro il relativismo e il nichilismo sofistico. Desiderio vuole dare un fondamento gnoseologico e ontologico al suo liberalismo: per questo ha scritto La verità, forse. Piccola enciclopedia del sapere filosofico dai Greci allo storicismo (liberlibri, 2015), scandito in dieci capitoli che, attraverso questioni teoriche e autori fondamentali (come Cartesio, Vico ed Hegel) analizzano uno dei temi più spinosi del pensiero. L’epigrafe dell’Introduzione («La verità è la pratica della libertà») è la sintesi mirabile di tutto l’ambizioso progetto. Scrive Desiderio: «La verità alla quale qui si fa esplicito riferimento è un tipo di comprensione storica della condizione umana che, prima di tutto, salvaguarda la libertà civile e la libertà morale degli uomini da ogni tipo di totalitarismo, sia esso di natura politica, filosofica, religiosa, scientifica». Insomma: mettere in discussione l’idea vulgata di verità (come possesso stabile di un gruppo di presunti “esperti”: politici, filosofi, sacerdoti, scienziati) significa creare le premesse per un mondo strutturalmente antitotalitario. Perché in nome della Verità si è legittimati a creare il Paradiso in terra (che può assumere anche le forme di un’utopia tecnocratica). Solo concependo la verità come comprensione del “factum” (qui l’attualizzazione del Croce lettore di Vico) è possibile immunizzarsi da questo rischio. Se tutta la cultura occidentale, da Platone in poi, è mossa dalla pericolosa illusione di raggiungere “la” Verità, e detenerla come possesso stabile, la verità “storicista” che Desiderio teorizza è volutamente “debole” e critica nei confronti di ogni potere. In sintesi, l’idea vulgata di verità inevitabilmente finisce, nella sua assolutezza, con il diventare strumento di un poter iniquo; la verità storicista è invece sempre al servizio della libertà.
Il libro argomenta in maniera esaustiva questa tesi, trovando inattese convergenze con filoni poco amati dall’autore (penso in particolare ad Heidegger, che egli tende ad interpretare – ma su questo spesso entriamo in conflitto – come una variante dello storicismo, ma anche con Wittgenstein). Sarebbe interessante sperimentarne l’uso all’interno della scuola, potendo ben funzionare come sintesi di una parte corposa del pensiero occidentale.
In conclusione, Desiderio ribadisce come lo scopo principale di quello che, ad ora, è il suo più importante libro speculativo, sia quello di rendere compatibile l’idea di verità con quella di libertà, partendo dall’assunto che esse spesso siano entrate in conflitto. D’altronde, un’altra maestra dell’autore, la Arendt (seppur letta a mio avviso in maniera riduttiva come pensatrice della libertà), ci ha insegnato come il primo filosofo politico dell’Occidente, Platone, voglia mettere in sicurezza la filosofia dal rischio della polis, e per questo fonda un sistema di pensiero incardinato sull’idea di una verità assoluta coincidente con la conoscenza del mondo stabile ed eterno delle Idee. Ed è, quindi, naturale che, senza tornare al relativismo ontologico e gnoseologico, ma facendo coincidere la filosofia con la storia pensata, Giancristiano Desiderio chiuda il libro con l’espressione che gli dà il titolo: «Questa è la verità, forse», dove il compito dell’avverbio è rimettere continuamente in moto quello spirito critico e problematico che, ogni volta, deve liberarci dalla tracotanza del sapere assoluto e tenere sempre aperto lo spazio della libertà.
tratto dalla rivista economiaediritto.it