di Giancristiano Desiderio
La nebbia che avvolge il paese e risale dalla ferita del Martorano non sembra annunciare il Natale e porta con sé qualcosa d’infernale. A casa di mia madre c’è una natalità tutta speciale: la donna della mia vita – nel senso amoroso e genetico della frase – è riversa ormai da anni in un bianco letto sanitario e ogni santo giorno, anche quello del santo natale, lotta con il male, forse indipendentemente dalla sua volontà. Ogni giorno qui sembra Natale e Pasqua perché è sempre un giorno di passione. Non racconto la cronaca familiare per toccare una nota patetica ma solo per ricordare a me stesso la dignità e il dovere che l’educazione cristiana insegna quando ci mette tra le mai un “dio abbandonato”.
Lascio la casa di mamma e vado in clinica dove c’è la madre di mia madre. Mi affaccio, la vedo, mi avvicino, l’accarezzo: apre gli occhi e mi sorride. Il sorriso di mia nonna è sempre lo stesso e ogni volta che mi sorride vedo la luce della mia fanciullezza quando ero seduto al tavolo quadrato della stanza da pranzo e ripetevo ad alta voce la lettura del sussidiario e lei in cucina ascoltava e oralmente mi correggeva. Andando da casa di mamma a casa di nonna e da casa di nonna a casa di mamma non mi sembra di percorrere una strada ma una vita o una storia. E’ come se io fossi nel mezzo tra queste due donne della mia vita che mi hanno insegnato a vivere con l’amore e i suoi necessari errori, perché le cose più importanti dell’esistenza di ognuno di noi non si apprendono dai libri ma dall’esperienza che a sua volta genera testi o quei “denti di drago”, come li chiamava Milton, che disseminati qua e là può succedere facciano nascere uomini armati di pensiero. Uno di questi dentini è spuntato l’altro giorno quando tra i tanti libri mi è capitato tra le mani una vecchia edizione di Piccole Donne che la madre di mia madre regalò a sua figlia con questa dedica: “A Isabella nel suo 12° compleanno con gli auguri più belli di papà e mamma, perché diventi anche lei una saggia Piccola Donna. Mamma, 31 dicembre 1953”.
Queste “piccole donne” si tengono ora per mano nell’ora della loro separazione e della loro ultima unione. Guardando i loro occhi e prendendo le loro mani mi sembra di toccar con mano la favola platonica che vede la vita come un carcere e se non credessi più ormai da tempo alla insostenibile concezione dell’anima-sostanza per davvero direi che le loro anime sono come rinchiuse in un carcere dal quale non riescono a fuggire per il meritato riposo e la fine delle sofferenze. Entrambe hanno avuto una vita attiva e non si sono risparmiate. Oggi viviamo il tempo delle “madri surrogate” e mi vien da pensare che in fondo in fondo sia mamma sia nonna hanno fatto per mestiere proprio le “mamme surrogate” perché una buona e brava maestra che insegna a leggere e scrivere, contare e cantare che cos’è se non una levatrice che fa nascere una seconda volta i figli degli altri?
Qualche tempo fa mia nonna fu incuriosita da un strano libretto che avevo tra le mani. Aveva un occhio di lince e, infatti, il librettino di sole dieci pagine era la rara edizione del Soliloquio di Croce in cui il filosofo non solo dice che la morte non ci deve trovare in “ozio stupido” e l’unica cosa che può fare è interromperci nel nostro lavoro e noi altro non possiamo fare che lasciarci interrompere, ma anche che per quanto la morte sia “malinconica e triste” non si può non vedere che la cosa terribile sarebbe “se l’uomo non potesse morire mai” e, se così fosse, chiuso nel carcere della vita ripeterebbe in perpetuo il suo ciclo vitale che, invece, come individuo possiede solo nella sua ristretta e finita individualità. Mia nonna volle leggere quelle poche dense paginette che racchiudono il senso di una cultura e di una civiltà e poi restituendomi l’opuscolo disse, risvegliando in sé la maestra che fu: “Bravo, e bravo a Benedetto Croce”. L’apprezzamento scherzoso mi fece piacere perché quella saggia piccola donna di nonna è sempre stata animata da una cultura religiosa ma non è stata mai bigotta, tutt’altro; e il Soliloquio che si conclude con il filosofo che avverte che la preparazione alla morte non è il necessario raccoglimento dell’anima in Dio perché con Dio siamo a contatto tutta la vita, sembra quasi una bella e tanto laica quanto religiosa benedizione alla sua vita attiva e santa, ricca di dolori e sventure e risposte alle sciagure. Eccola qui la benedizione: “Le anime pie di solito non la pensano cosi, e si affannano a propiziarsi Dio con una serie di atti che dovrebbero correggere l’ordinario egoismo della loro vita precedente, e che invece sono l’espressione ultima di questo egoismo”.
Era il tempo del vinile e la musica si ascoltava con il giradischi. A Natale ascoltavo una canzone di Pierangelo Bertoli: Biglietto d’auguri. L’ho riascoltata oggi grazie a YouTube (il giradischi è fuori uso e muto come una morta stagione che ogni tanto, però, rinverdisce come l’eterna primavera). La canzone non è granché ma la voce è suggestiva e a me ricorda quella di mio padre che alla radio in un giorno lontano di un natale lontano faceva gli auguri a chi in quel momento lavorava, a chi soffriva, a chi era malato, a chi era in carcere. Sembrano auguri particolari fatti agli altri, ma sono auguri comuni, forse gli unici possibili perché gli altri, per quanto infernali siano, siamo noi.