Qualche sera fa Mario Sconcerti, bevendo un’ottima Falanghina e mangiando delle saporose pacche e fagioli, diceva a me e agli amici Tonino Violante e Claudio Lubrano (entrambi ex portieri, quindi, un po’ tocchi, pazzi): “Il Napoli è la squadra più forte del campionato, se lo vincerà però è difficile se non impossibile dirlo. Ad ogni modo si può dire che non vincerà lo scudetto la Fiorentina che ha già perso troppe partite e scontri diretti, mentre l’Inter non esprime un gran gioco ma e’ solida e sarà in partita fino alla fine”.
Il giudizio sconcertante ha trovato una sua prima conferma con la vittoria del Napoli sull’Inter al San Paolo con i due lampi di Gonzalo Higuain e con la squadra di Roberto Mancini che è risorta quando si pensava fosse morta e che lottando fino alla fine ha mandato in bambola un Napoli che ha in Pepe Reina un Higuain tra i pali. La partita, infatti, si potrebbe racchiudere tutta tra l’inizio e la fine, il primo minuto e l’ultimo minuto di gioco, quando il robusto centravanti argentino al primo tocco di palla l’ha messa dentro e quando il portiere spagnolo toccando per l’ultima volta il pallone l’ha tirato fuori dalla porta con un colpo di reni e un esercizio di bravura. Ma se i novanta minuti si racchiudono in questi due gesti d’arte, allora, dove va a finire tutta la letteratura calcistica – compreso il giudizio di Sconcerti – sul valore delle squadre e sulle strategie degli allenatori?
L’arrivo di Maurizio Sarri a Napoli si è rivelata una rivoluzione tutt’ora in corso. L’allenatore ha preso per mano una squadra che a Benitez era scappata di mano quasi subito. All’inizio del campionato ci fu il giudizio negativo – e ora sappiamo ingeneroso – di Maradona su Sarri, ma Diego – si sa – fu tanto bravo in campo quanto è inadatto in panchina. Su Sarri si sono sbagliati anche a Milano: pare che il Milan berlusconiano, sulla scia dell’antica scommessa vinta sullo sconosciuto Arrigo Sacchi, lo volesse ma poi ci si fermò davanti all’abitudine del tecnico di andare in giro in tuta piuttosto che pettinato e leccato con Pippo Inzaghi. Ma in cosa consiste la rivoluzione sarriana? In due cose su tutte: nel giocare a pallone e allenare gli uomini. Al di là dei moduli, il gioco del Napoli sta nel tenere la squadra alta e portare il prima possibile il pallone nella metà campo avversaria e tramutarla in quella che l’Ariosto chiama il campo di Agramante. Le sovrapposizioni a destra e a sinistra e un accenno di tikitaka – scambi in spazzi stretti – dal centrocampo in poi servono a creare ordine nella squadra di Insigne e disordine nella squadra avversa affinché Gonzalo il centravanti – che dalle mie parti si chiamava poeticamente il centrobecco -, una specie di hombre vertical, possa avere l’intuizione giusta o tramutare in gol il suggerimento del compagno o lo svarione dell’avversario.
Una buona squadra vincente ha tre fondamentali: gioco, giocatori e fortuna. Il Napoli di quest’anno sembra che li abbia tutt’e tre. Il gioco non è continuo e si vede a sprazzi, ma il lavoro di Sarri sembra improntato proprio a questa volontà di “giocare a pallone” che dovrebbe essere sempre la prima qualità di un uomo di calcio. I giocatori, non tutti eccelsi, ci sono e tra questi Higuain fa la differenza, almeno fino a quando avrà la forza necessaria per spostare rapidamente il suo corpaccione in tutta la fascia delle trequarti avversaria. La fortuna, elemento indispensabile in tutte le vite virtuose – secondo l’inarrivabile insegnamento di Machiavelli -, fa il suo gioco riconoscendo il talento anche a chi nella sua lunga storia poco ha vinto e tanto ha sperato. Questi tre elementi messi insieme ci danno la possibilità di meglio approfondire e intendere il giudizio sconcertante da cui siamo partiti: la vera forma logica della critica calcistica e della storiografia del calcio è la caratteristica del singolo giocatore e dell’opera che è sua e giammai i dati, le statistiche, le analisi che invece sono conseguenza e non origine del gioco. Se è vero – come più volte mi son soffermato sul tema – che un gran gol ha qualcosa di artistico e che il gioco crea i giocatori più di quanto i giocatori non creino il gioco, allora, sarà non solo possibile ma auspicabile una similitudine tra la storia della poesia e la storia dell’arte e la critica calcistica perché in entrambi i campi da gioco dello spirito umano abbiamo a che fare non con generalizzazioni e schemi astratti ed esangui – come ad esempio le storie letterarie e i manuali calcistici – ma con caratteri e individualità che o vincono o soggiacciono alla dialettica delle passioni e degli sforzi che li avversano e stimolano. Il lavoro di Sarri sarà tanto più efficace e nobile quanto più batterà sulla necessità di creare gioco per far emergere caratteri e individualità dell’arte calcistica. Napoli – Inter è tutta “risolta” nell’arte di Higuain e nella poesia di Reina, a conferma che la vittoria alata è data da grandi calciatori e i giocatori sono il fiore del gioco che li possiede.