Piegati, i sanniti – quanta retorica in una parola – si sono rialzati. Senza piangere hanno lavorato mostrando una fiera dignità. Il giorno dopo la notte del Calore si sono spontaneamente organizzati in una corda umana e, nel comune dolore, hanno aiutato chi stava peggio. E’ necessario riconoscere, senza drammi e senza stupidi orgogli, che la gente del Sannio è migliore di chi rappresenta il Sannio. Lo dico con la stessa compostezza con cui le famiglie e gli operai, gli imprenditori e i contadini hanno reagito all’avversità. Lo dico senza puntare il dito contro nessuno perché in questa storia di acqua e di terra siamo tutti un po’ vittime e siamo tutti un po’ carnefici. La suprema ingiustizia sarebbe quella di indicare in un uomo o in un istituto il capro espiatorio per levare e lavare i peccati di un mondo che pecca di suo ma che nel peccato sembra aver trovato riscatto e redenzione. La cosa più giusta da fare oggi è un elogio del Sannio che travolto dal destino della sua stessa terra amata e offesa si è rialzato buttandosi sulle spalle il peso del momento. Mentre gli aiuti tardavano, mentre il governo era girato dall’altra parte, mentre il circo televisivo era interessato ad altri spettacoli, i sanniti se ne sono fottuti di tutto e tutti e si son messi a scavare come hanno sempre fatto nella loro vita a parte.
C’è un detto non-detto che è bene dire con chiarezza: se il segnale di pericolo fosse stato dato in tempo ci sarebbero stati meno danni. Tuttavia, con la serietà che è invocata dalla stessa terra si deve dire che in un paese civile la neutralizzazione dei pericoli naturali non è data dalla fuga ma dalla prevenzione. La tempestività del segnale di pericolo – il cosiddetto e pacchiano “allarme meteo” – è già un ripiego di una comunità (nazionale) che è perennemente alle prese con emergenze diventate fenomeni disgraziatamente cronici e culturali. Un autentico fallimento che se non fosse tragico muoverebbe persino al riso con le sue involontarie comiche. Come la risposta morale all’alluvione ha messo in luce la tempra della gente del Sannio, così il fenomeno alluvionale evidenzia la miseria della gente del Sannio. Sono cose che ci dobbiamo dire senza infingimenti: una notte di vento e acqua non genera un’alluvione se l’uomo nel tempo ha governato e rispettato il territorio. Invece, l’assenza di un saggio e sapiente governo delle terre e delle acque del Sannio – e in particolare del Fortore che con la sua vitalità verde e cruda riversa le acque tutte a valle nel Calore – ha trasformato un violento nubifragio in una tempesta perfetta durata tre giorni e tre notti. Se si andranno ad analizzare con serietà i singoli drammi, ora rurali ora urbani, si scoprirà con sconforto che l’elemento decisivo che ha determinato il danno non è stato naturale ma umano. E’ una verità che non vede solo chi non vuole ed è la stessa verità che si presenta a Ponte Valentino o a Ponte, nella valle del Calore o nella più anonima delle contrade in cui l’abitudine di lavorare strade, sentieri, terre e vite è tramontata da molto tempo. Se noi oggi abbiamo le mani nel fango è perché le abbiamo avute in pasta (e lo dico con la terza persona plurale perché lo spirito inquisitorio che si respira è un’alluvione nell’alluvione). L’abuso, la concessione illegale, l’urbanizzazione scriteriata, l’indifferenza ambientale sono errori storici che sono stati pagati tutti in un colpo. Sono tutti errori che non hanno limitato la potenza della natura ma l’hanno potenziata a danno dell’agricoltura, delle industrie, dei caseggiati.
Le avversità, se non atterrano, formano. L’alluvione dell’autunno 2015 dovrebbe insegnare al Sannio che nel rispetto del suo vasto mondo agricolo e nella tutela del suo piccolo gruppo industriale è necessario curare acque e terre che danno la vita e danno la morte.
Niente da eccepire: analisi lucida ed esauriente.