Il punto più alto di Benevento è Pacevecchia. Sono salito sulla collina dal nome antico e bugiardo e ho visto l’inferno. La città, da Pantano a Ponticelli, dal rione Libertà al rione Ferrovia, è un grande lago melmoso. I beneventani, travolti dal solito destino, hanno il diavolo in corpo ma senza troppe storie si sono rimboccati le maniche e stanno ripulendo la città. Come a Genova un anno fa c’erano gli angeli del fango, così quest’anno a Benevento gli angeli sono arrivati dalle scuole, dall’università, dalle parrocchie e la città, prima dell’aiuto organizzato del comune e della protezione civile e dei militari, si è risollevata nella dignità.
L’altra notte a Benevento la storia si è ripetuta. Mentre la città dormiva, il Sabato e il Calore ingrossati dall’acqua che arrivava dal cielo e dalla terra, sono usciti dai loro letti e si sono infilati nei letti dei beneventani. L’acqua è arrivata ovunque: nelle strade, nelle case, nelle officine ed è arrivata a lambire il Fatebenefratelli. Sessantasei anni fa, il 2 ottobre 1949, neanche l’ospedale fu risparmiato e tra morti, feriti e sfollati solo la Madonna delle Grazie dall’alto della basilica rimase asciutta, bella e impossibile. “Questa volta la Madonna ci ha fatto la grazia” dicono un po’ tutti. Lo dice Alfonso Calderazzo, insegnante di Geografia. La sua scuola, in via Stasi al rione Ferrovia, è finita sottacqua: “Lì ci sono trecentocinquanta ragazzi e non voglio neanche pensare cosa sarebbe accaduto se il Calore avesse straripato di giorno e non di notte”. Lì vicino c’è un’altra scuola, la Moscati, più grande, più popolosa: è tutta acqua, fango e melma. Mentre del vicino campo di rugby c’è solo il ricordo. Si maledica pure il cielo, perché di acqua l’altra notte ne è venuta giù tanta. Ma dopo le imprecazioni si riconosca che nella classica e antichissima stagione delle piogge solo il caso ha evitato il lutto e il peggio della nuova tragedia annunciata.
Potrà suonare strano perfino ai sanniti, ma Benevento, nel cuore del Sannio, è una città fluviale. Ben due fiumi l’attraversano per intero ma nessuno cura quelle acque che scorrono via come la vita e ciclicamente si portano via case e sacrifici, lavoro e vite. Ecco perché a Benevento l’alluvione è periodica. “Ero ragazzino e mi misi in salvo con le mie gambe quando nel ’49 il Calore spazzò via il Ponte Vanvitelli”. Oggi il signor Mario ha una bottega da barbiere alle spalle della prefettura e sulle pareti ha messo le fotografie della tragedia di quando era un bimbo: “Ora mi toccherà mettere anche le foto di oggi: dal 1949 al 2015. Possibile che non impariamo mai nulla?”. Purtroppo, sì. La storia non insegna nulla ed è normale. Il guaio serio è che non insegna nulla neanche la vita. Benevento è città di ministri, sottosegretari, segretari e presidenti ma i governi locali chiedono lo stato di calamità mentre è fin troppo palese che si tratta di uno stati di calamità politica e civile. La politica strapotente qui dimostra tutta la sua inutilità. Il sindaco Pepe: “Nessuno ci ha avvisati dell’alluvione”. In una città fluviale curare le acque non è un dovere civico ma una necessità vitale, perché il fiume prima o poi, come diceva Machiavelli, s’ingrossa e travolge tutto.
In prefettura c’è un “tavolo” per coordinare i soccorsi. Alla Provincia c’è un altro “tavolo” per monitorare il territorio. Ma ora, passata l’onda d’acqua e l’onda emotiva, si attendono aiuti seri che non arrivano. Così i beneventani fanno da sé: c’è chi si rivolge alla ditta privata per liberare casa dall’acqua e dai detriti e chi, come le aziende a Ponte Valentino, non sanno a chi rivolgersi per ripulirsi e riprendere il lavoro che, già in crisi, è svanito in una notte. La città è divisa in due. In alto si sta bene, in basso c’è l’inferno. Chi sta bene dà una mano a chi sta male portando viveri, coperte e una speranza. Ma quando la città sarà ripulita e il sole tornerà a splendere sulle sciagure, bisognerà mettere mano alla cura delle acque del Sabato e del Calore perché la piena prima o poi ritornerà.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 17 ottobre 2015