di Antonio Medici
Formia, cittadina del basso Lazio a ridosso della Campania; a lungo una misteriosa e benevola immunità, una barriera invisibile l’ha protetta dall’avanzata delle orde fetide e ululanti degli orchi da villeggiatura e non solo.
Una quieta e discreta grazia rendeva distensivo trascorrervi le giornate, in ogni stagione. Commerci sofisticati di abbigliamento e design per la casa fiorivano lungo via Vitruvio e antiche vestigia romane in qualche androne di palazzi moderni attestavano una cura che pareva inviolabile, avendo resistito sin’anche all’avvento del trash da ammasso dei centri commerciali, per il nostro profondo e connaturato desiderio di beltà, anche superflua.
Il grande magazzino Orlandi non vendeva nulla di dozzinale e addirittura il Mc Donald, travolto dall’immanente incanto della città, pareva adeguarsi a standard più nobili del suo solito.
Chinappi, la pizzeria ristorante che ambiva ad intaccare il prestigio di Italo, ristorante rinomato e recensitissimo, lavorava con formule innovative, contrapponendo freschezza e giovinezza alla eleganza retrò e decadente (e difatti è infine decaduta) del più noto concorrente.
Da Chinappi l’ordine delle portate era invertito, il pesce veniva prima di tutto in ogni senso, andava gustato a bocca pulita prima d’ogni altro. Una piccola sovversione in un contesto in cui regnava l’ordine ai fuochi, nella sala ed in giardino, dove d’estate tra i molti abitué, capitava anche qualche piccolo vip e occasionali incursori informati della bella accoglienza e miglior cucina del locale incastonato tra un piccolo rilievo ed il mare, appena alle spalle della via principale.
In questo abbrivio di terzo millennio (son già tre lustri) la volgarità sembra tracimare con la violenza di uno tsunami, tal che anche la barriera invisibile che proteggeva Formia ha ceduto. Lo scadere di Chinappi, così, pare assurgere a metafora dello sbracamento di tutta la città.
Nessuna traccia di quell’estro di un tempo. Tutto più ordinario ma senz’ordine. L’antipasto di mare incerto, ondeggia tra lumachine saporite e polpi stanchi. I tradizionali rigatoni con la gallinella, di per se smorti nel sapore, nel colore e nella consistenza, giungono sormontati da uno spezzone di rigatone a mo’ di sfregio, decoro sciatto illuminante sull’andazzo generale. Sarago e frittura senza particolari spunti. Giunge, sul finire, per lasciare comunque dolce il ricordo un tiramisù strepitoso servito in coppa di vetro.
In sala il servizio vacilla tra ossequiosa attenzione per alcuni tavoli e irritante svagatezza per altri.
Carta dei vini meditata e conto sui 60 euro (vini esclusi) che si giustifica più per il passato splendore della cucina e la permanente piacevolezza del giardino che per l’effettivo valore dei piatti serviti.
Riprendiamo a fatica l’auto nel piazzale – parcheggio cittadino, a ridosso del mare, zigzagando tra bancarelle di torroni sudati e fumi di hamburger bruciati sulla piastra di terribili camion-cucine itineranti, interrogandoci cosa mai passi per la testa di chi consente di allestire panchine da sagra tra i gas di scarico di auto che parcheggiano.
Si riparte un po’ avviliti, un po’ angustiati dall’invadenza della volgarità da cui non si è riusciti a riparare nemmeno a tavola. Quell’anfratto su cui si contava, infatti, ha ceduto ed ha deluso.
Piacere di arrivare: ** il giardino è bello, la sala curata, ci si arriva però al termine di uno stretto vicolo che sembra quasi invalicabile.
Piacere di essere accolti: ** accoglienza oscillante tra cordialità ed indifferenza. Se il tempo lo permette mangiare in giardino è particolarmente piacevole.
Piacere del desinare: *** cucina e servizio distratti e senza uniformità, prevale incertezza, carta dei vini selezionata con cura, mise en table inadeguata
Piacere dopo pasto: ** prezzi che non hanno seguito la linea inclinata della cucina, la città non riserva più la grazia di una volta, meglio andar via dopo il pasto