Ho trascorso i giorni della giovinezza al tavolo dello studio di mio nonno. La stanza era piccola: una scrivania, tre sedie, una libreria grande con i vetri e le ante, una piccola aperta e traballante. Pare che la libreria di Spinoza contenesse appena centosessantuno libri. Qualcuno in più c’era negli scaffali della casa del nonno materno. Non tanti ma selezionati tra i greci, i latini, gli italiani, qualche francese e i tedeschi. Non conta leggere tanti libri – disse o scrisse chissà quando ormai il miglior Feltri di una volta – (o fingere di averne letti tanti) ma conta capirne almeno uno, almeno uno. Oggi i libri, però, son così tanti che ho potuto dar vita ad una biblioteca pubblica dedicata a nonno – Biblioteca Michele Melenzio – e ad una biblioteca privata che è il mio strumento di lavoro che ho sistemato in una casa-studio nel mezzo degli antichi fabbricati di Sant’Agata dei Goti che mi danno in un tempo conforto e sconforto. Dovrei essere contento della strada percorsa e appagato dal lavoro fatto, ma pago pur non sono e mi accorgo che ho un vuoto nel petto e ciò che manca è quella piccola stanza dove ho lasciato il cuore. Da lontano, come una canzone ignota, mi sovviene l’eco di un verso che non è né gioia né dolore ma solo il ricordo letterario di un sonetto del Trecento: “Non seppi mai che cosa fosse amore”.
Rivedo quell’adorabile vecchio che passò, giovane e fresco, attraverso il mare tempestoso della seconda guerra mondiale, una ferita eterna con cui gli aprirono la gola per parlare, la morte di due figli ma aveva in sé una compostezza d’animo e una forza di volontà che sono stati il modo in cui servì la vita e i suoi doveri. Da quell’uomo ho appreso il gusto degli studi come abito morale prim’ancora che come esercizio d’intelletto. Le cose più importanti della vita ci arrivano dalla vita stessa, dalle esperienze, dagli incontri e dagli scontri, dalle cadute e dalle risalite, non certo dai libri e dalla cultura scolastica. Gli stessi libri, con il loro inchiostro nero come uno scarafaggio o un lutto, sono muti e tristi senza la fame di conoscenza degli occhi di chi legge e delle orecchie di chi ascolta.
I testi delle librerie erano vecchi e consumati, logori e sottolineati. Erano passati di mano in mano e usati fino allo spago che mostravano come ferite di guerra e di pace. Le carte, come giustamente si addolorava Giacomino da Recanati, o sono sudate o nella loro igiene tipografica e mentale non servono neanche a trattenere la polvere o ad allenare la lingua e i denti di un topo. Le carte sono sudate perché i libri si leggono non solo con la testa ma anche con lo stomaco e persino col culo che diventa di pietra. Il processo della verità è individuale come individuale sono la nascita e la morte e chi non è disposto a soffrire per partorire non nasce e non muore anche se sta al mondo.
Il testo richiama la femmina, la testa, che accoglie e apprende e manda giù dove lo stomaco assimila e digerisce per conservare i succhi ed espellere ciò che non gli serve. L’atto della comprensione è vorace giacché il pensiero, al pari della vita tutta, ha bisogno di alimentarsi per vivere. A volte il pasto, fiero e nudo, rimane sullo stomaco e la cattiva digestione segnala che non c’è stato apprendimento ma noia, nausea e fraintendimento. Come quello dell’ordine degli studi del nostro tempo in cui il testo non è fatto per la testa ma per i test che attestano l’abilità nel saper usare più i tasti che la testa.
Col tempo i libri soffocarono la piccola stanza. Allora lasciando la vista del Taburno spostai carte sparse, seggiole dondolanti, banchi, carabattole e autori vari nella stanza che era tre volte l’altra e in autunno e primavera inondata di luce sembrava potersi toccare le larghe foglie dei platani con un dito. Quel nuovo studio non era già più il suo ma il mio e il vecchio mi lasciò fare perché vedeva in quel passaggio il naturale alternarsi delle stagioni e il frutto del suo lavoro del quale – domine non sum dignus – non ero degno allora e non son degno oggi. Quando scrissi la tesi di laurea – mea culpa, mea culpa mea maxima culpa – sulla Logica crociana, vi apposi una dedica per nonno che custodiva il bene e indicava la verità; a distanza di decenni e dopo che è passata non solo tanta acqua sotto i ponti ma son saltati per aria anche i ponti ho ripreso quella sacrosanta dedica scritta a mano per riscriverla a stampa sul libro sulla verità che ora esce con il mio editore marchigiano e che raccoglie il senso di una tradizione e gli sforzi e gli scherzi di una vita che tra alti e bassi ho l’illusione di aver imparato a governare.
Eppure, ora che la giovinezza cruda, selvaggia, fuggitiva e fiera non c’è più e sono nel pieno del lavoro, mentre le cose intorno cambiano e il mondo invecchiando ringiovanisce e ci uccide, mi accorgo che la luce autunnale e primaverile di quella stanza continua ancora a illuminare la mia vita fin dentro le ossa e gli affetti, le ombre e le passioni che tremano e ruggiscono mentre la figura di un vecchio mi saluta dall’altra parte della vita.