La notizia dell’accorpamento della prefettura di Benevento alla prefettura di Avellino, con la conseguente fine della figura del prefetto di Benevento, ha suscitato sorpresa, polemiche, scandalo e il solito lamento dell’orfano sannita: “Ci tolgono anche la prefettura”. In realtà, le prefetture d’Italia da molto tempo non sono più le prefetture napoleoniche che furono un tempo e i loro inquilini, privati dei poteri specifici, sono diventati delle belle statuine. Ci si può lamentare perché una bella statuina è accorpata a un’altra bella statuina? Purtroppo, sì. Così, a babbo morto, si è attivato una sorta di pronto soccorso nel tentativo disperato di resuscitare Lazzaro che qui, mischiando sacro e profano, sarebbe nientemeno che lo Stato: “Salviamo la prefettura”. Che infinita tristezza.
La verità è che l’istituto prefettizio andrebbe abolito – come di fatto è avvenuto in Italia attraverso lo svuotamento dei suoi poteri – anche se fosse ancora nel pieno dei suoi poteri e andrebbe abolito proprio per questo motivo. Tra la democrazia e la prefettura non c’è accordo ma disaccordo e non bisogna ricordare il memorabile “Via il prefetto” di Einaudi per sapere che il prefetto è il rappresentante del governo in periferia, la sua longa manus che proprio perché longa e proprio perché manus ha sempre impedito con il centralismo, con le circolari, con i provvedimenti, la nascita della vita democratica che, come tutte le vite, non viene al mondo senza sforzi e senza prove, senza conflitti e senza responsabilità. Ma la prefettura – si dirà – essendo la presenza dello Stato sul territorio è sempre stato un presidio di garanzia per la democrazia e per la libertà. Nientemeno? Invece, è vero proprio il contrario: il fascismo si impose nel Mezzogiorno, dove non esisteva, con le prefetture. A Benevento – tanto per stare sulla storia locale – il prefetto Giuffrida poté dire senza paura e senza smentita: “Il fascismo sono io”. Se questo accadde è perché l’istituto prefettizio è il frutto di uno Stato in sé dittatoriale ossia lo Stato napoleonico che diviso in province o intendenze era governato – meglio: controllato – dai prefetti che facevano capo al potere centrale di cui erano emanazione.
Ma si dirà – ancora – che senza la prefettura la vita democratica è fuori controllo e senza nessun controllo vinceranno sempre i più forti e i signori locali si lasceranno andare ai loro porci comodi. Addirittura? Ahimè, qui non ho bisogno né di un nome autorevole, né di una bella teoria; no, qui basta l’età la quale mi dice che quando il prefetto era nel pieno delle sue funzioni anche i porci comodi erano nel pieno delle loro attività e, allora, delle due l’una: o il prefetto è garanzia di legge e libertà e quindi non ci sono i porci comodi oppure se ci sono i porci comodi la prefettura non è garanzia di legge e libertà.
Nel difendere la prefettura si difende l’idea vana di uno Stato salvifico che non può salvare nessuno se non si inizia a salvarsi da soli con le lotte civili. In particolare, i meridionali hanno un rapporto perverso con lo Stato perché da un lato lo invocano e dall’altro lo fregano. Si dice Stato ma in realtà si pensa agli uffici, alle carte, alle prebende, ai permessi, alle entrature, alle raccomandazioni e a tutto quel mondo parassitario fatto di mediazioni e permessi in cui si specializzano presto i deputati. La prefettura, dopotutto, non è l’unico istituto che ha svolto la funzione di centralizzare la democrazia in un ministero.
Un altro caso emblematico è stato quello del provveditorato agli studi con cui il ministero dell’Istruzione ha coltivato l’illusione di governare la scuola e di fatto ha impedito la nascita della libertà scolastica. Proprio Einaudi ricordava quel ministro in Francia che guardava l’orologio e diceva che a quell’ora nella terza classe di tutti i licei i professori stavano spiegando Cicerone: e così si è fatto per l’Italia con il modello statale napoleonico con il quale da Roma si son dati ordini a tutte le scuole di ogni ordine e grado, “pubbliche” e “private”: ordinamento, orari, tasse, nomine degli insegnanti, degli impiegati di segreteria, dei portieri e dei bidelli, ammissioni degli studenti, libri di testo, ordine degli esami, materie insegnate. Dio mio che brivido dietro la schiena. Ancora oggi le cose non sono forse così? E la cosa grave è che lo è più nelle menti che nella realtà, più nelle volontà degli insegnanti che nelle intenzioni dei governi. Ciò significa che il veleno dello statalismo – anticamera di ogni dittatura – è entrato così in profondità, vuoi con il monopolio scolastico vuoi con la prefettura, che i primi a dolersi di un suo superamento o smantellamento sono proprio coloro che dovrebbero gioirne. Forse, perché agli italiani piace più di tutto lo Stato amministrativo che è un alibi perfetto per la loro servitù volontaria con cui piangono e fottono.