La vita che si fa opera passa attraverso peccata mundi. La buona volontà non è lontana dai peccati del mondo e, al contrario, ne è in stretto contatto perché la volontà buona si afferma solo superando i peccati ossia le pecche, le mancanze di bene. Il senso della buona volontà è nello sforzo: ciò che rende la volontà buona è la necessità. Le parole del Vangelo di Giovanni – Agnus Dei, qui tollis peccata mundi, miserere nobis; Agnello di Dio, che togli i peccati del mondo, abbi pietà di noi – sono quanto mai vere e la parte più vera è l’accento che batte sul miserere – abbi pietà di noi – giacché i peccati del mondo non possono essere tolti definitivamente senza togliere anche il mondo umano che in quei “peccati” ha la sua prima radice e la sua ragione di vita. Da qui la cristiana concezione operosa della vita terrestre che, alla maniera hegeliana, è il superamento di se stessa su se stessa proprio attraverso il togliere e il conservare in più alto grado i peccati del mondo. In questo superare, che è la nostra stessa vita prima nuda e cruda, selvatica e fiera e verde poi allevata, costumata e addolcita e redenta, la nostra azione quotidiana incontra ostacoli, angosce, crisi, enigmi che a volte risolviamo risollevandoci, a volte ci respingono e cadiamo. Quando sentiamo di non farcela diciamo che il Signore o il destino non vuole, quando agiamo con risolutezza e compiutezza quasi ci meravigliamo di noi stessi e diciamo che il Signore o il destino ci ha dato una mano. Ma sia in un caso che nell’altro il richiamo a una forza superiore – il Signore, il destino – assente o presente, favorevole o contraria, è un modo di dire o un espediente retorico e la nostra azione è, nella necessità della situazione, la manifestazione del libero arbitrio in cui la vita che si consuma nella sua individualità opera. La vita che diventa opera avversando e attraversando i peccati del mondo passa e saggia degli stati di grazia in cui la volontà appassionata crea la vita stessa. Ma che cos’è lo stato di grazia?
Mi sia permesso passare dalla liturgia alla prosa letteraria e civile e alla vita quotidiana e i suoi ricordi. Se Messi calcia nel giro di dieci minuti due punizioni e segna due gol è in evidente stato di grazia. Se Vittorio Gassman ne Il sorpasso interpreta il nullafacente e cialtrone Bruno Cortona alla guida della Lancia Aurelia e non si sa dove sia l’attore e dove sia l’uomo significa che è in stato di grazia. Quando il Brunelleschi, sfidando le leggi fisiche, progetta la cupola di Santa Maria del Fiore è palese lo stato di grazia e ancor più lo è – semmai qui valesse la quantità – quando concepisce e realizza la diabolica e perfetta burla ai danni del grasso legnaiuolo e lo stesso Antonio Manetti, biografo di messer Filippo, è in stato di grazia quando butta giù La novella del grasso legnaiuolo tramandandola ai posteri increduli che noi siamo. E non è in stato di grazia il giovane Bonaparte, senza che “venne una man dal cielo”, nella sua veloce e vincente campagna d’Italia?
Tuttavia, non è necessario considerare alti esempi perché lo stato di grazia – il laicissimo stato di grazia – c’è ogni volta che ognuno di noi fa bene ciò che deve fare e lo fa con naturalezza e agilità che sembrano pura spontaneità e invece hanno in sé un esercizio in cui la volontà si è disciplinata a tal punto da mostrarsi nella sua naturao nel suo spirito. La grazia ci può essere negli individui e nelle attività più umili che in realtà umili non sono se son allevate e effettuate con intendimenti di servizio e libertà: nella maestria dell’artigiano c’è grazia, nella cura del contadino risiede la grazia, nella fatica dell’operaio c’è la grazia e la grazia, come stato d’animo di conquistata calma, c’è anche in un semplice modo di essere e condursi. Nel vivere secondo opera – e operare ci è necessario, anche se la vita operosa è meno comune di quanto si immagini – l’uomo, stretto nella sua individualità con la quale pur si apre al mondo, non può lamentare la mano che non scende dal cielo e deve agire come se egli fosse grazia o provvidenza a se stesso, deve provare a ingraziarsi la grazia o a esser provvido di provvidenza e, per essere meno paradossali, deve aiutarsi da sé e rendersi degno della grazia non perché la grazia scenda su di lui ma perché lui si innalzi alla grazia. Davvero la vita se resa operante è una “spedizione verso l’interno”, un’anabasi, un’ascensione che ha in sé la discesa, la catabasi, un viaggio sotterraneo nelle ragioni più intime, in quello che un tempo era detto il laborioso regno delle madri che fin dal nome sembra essere il prototipo della vita alla luce del sole. Anche la grazia, che ci appare talmente grande e gratuita da esser più che umana, è il frutto di una conquista in cui la nostra volontà si è formata con l’esercizio assiduo e il tormento dell’anima che emenda i suoi errori vivendo peccata mundi.
Per calciare due punizioni come se si fosse un dio in terra c’è bisogno di far l’amore col pallone e per essere il Cortona fino all’ultima curva della morte bisogna assaporare in sé grandezza e nullità umana. Ognuno deve imparare a fare la sua parte – age rem tuam – e soprattutto deve imparare a non andare al di là della sua parte, come il ciabattino che – ce lo insegna l’eterna grazia di Totò in San Giovanni decollato – non deve andare al di là delle scarpe, ne ultra crepidam. Ogni passione, senza la quale non si fa nulla di buono e significativo nella vita, deve trovare la sua arte e lo scherzo architettonico del Brunelleschi e quello militare di Napoleone hanno in sé una passione così forte che chiede di essere trasformata in opera d’arte di pace e di guerra. Pace e guerra che ci portiamo dentro come un fuoco ora alzandoci ora abbassandoci, aspettando una grazia ricevuta che non giunge fino a quando non lavoriamo per conquistare il nostro stato di grazia.
Che la grazia discenda su di voi col sudore della fronte e dell’anima e con voi rimanga sempre.