Forse, il segreto della buona vita è nella sprezzatura: l’esser seri nelle cose leggere ed esser lievi nelle cose gravi. Non è poco, è tutto. Non è da tutti, difatti, esser leggeri nelle cose pesanti ed esser seri nel gioco. I più risultano pesanti e pedanti nelle cose leggere e superficiali e cialtroni nelle cose serie. Perché la sprezzatura – una certa aria di voluta e anche ostentata negligenza – è già un’arte di civiltà e umanità. Nella vita come nella scrittura. Ci si può abbandonare alla prosa e scrivere con naturalezza ma quella naturalezza, che sembra un’acqua fresca che sgorga dalla sorgente, anche se pare trascuratezza non lo è per nulla e al contrario – come diceva Leopardi – nasce da molta e continua cura e artifizio e studio. Quando la negligenza è vera e non è elegante come un bellissimo Aristippo allora la sprezzatura è spazzatura e oggi, dove ti giri giri, vedi una pulitissima spazzatura che si atteggia a sprezzatura ed è merda.
C’è un libro in cui c’è tutto che inizia dicendo che chi cerca quello che non deve trova quello che non vuole. Come quel detto dei liceali che diceva di non andare nel vicolo oscuro che è meglio una mazza in testa che un cazzo in culo. Come suor Margherita che cadendo dal balcone finì col cul sul cazzo di fra’ Carlo: si ruppe il cul, ma ebbe salva la vita. Che fare doveva, ringraziarlo? E’ proprio vero, come amava ripetere Bruno, che nell’ilarità c’è la verità, come nell’oscenità il terrificante si mescola con la giocondità. Il libro, grande assai, è quello del Basile, Lo Cunto de li Cunte, e si apre con una scena boschereccia in cui una vecchia senza volerlo fece ridere Zoza, la figlia del re di Vallepelosa, che non rideva mai e stava sempre rattristata e incazzata. Il gesto osceno della vecchia che si solleva la veste e fa vedere la fessa rallegra la ragazza triste che scoppia a ridere. La vecchia che mostra la fessa è – raccontava Ruggero Guarini – la diavolessa dal duplice aspetto: da un lato è spettro notturno del corteo di Ecate infernale come Empusa, Medusa e Mormo; dall’altro è la serva beffarda e saggia che con le sue scostumatezze e con le sue indecenze interruppe il digiuno di Demetra afflitta per il destino della figlia rapita da Aidoneo. La fessa ignuda è il gesto che c’era – mistero dei misteri – al centro dei grandi misteri eleusini e disgustò assai Clemente Alessandrino ma il disgusto non gli impedì di salvare il frammento orfico che copiò e citò e, chissà, vergognandosi si contentò: “Così dicendo sollevò il peplo e mostrò tutta l’impronta nel corpo… E di questo sorrise la dea, si rallegrò nel suo cuore”. Ma oggi che volete che sia una fessa ignuda? L’osceno sembra aver perso il suo fascino e volendolo cercare non si sa bene dove andarlo a trovare per cui per rintracciare ciò che si vuole bisogna cercare dove non si deve.
Tra le tante cose che si sono perse, e non si saprebbe dove trovare, ce n’è una che è impagabile ed era lo spirito popolare. Il segreto dello spirito popolare è la mescolanza del basso e dell’alto, dell’eccelso e dell’infimo, del nobile e del plebeo. In una festa di popolo c’era di tutto un po’: l’ordinario e lo straordinario, il sano e il malato, l’atleta e lo storpio, il realistico e il fantastico, il regale e lo scurrile, il sublime e il sozzo, il terribile e il dolce, la santità e il peccato. La festa popolare sembra una fiaba del Cavalier Giovan Battista Basile ed è fatta per festeggiare il santo o la santa ma anche per peccare confidando nella loro grazia amorosa. La festa di Sant’Alfonso a Sant’Agata dei Goti – quanta santità in quattro parole, per fortuna che ci sta pure un po’ di barbarie – fatta com’è nel cuore dell’estate sembra fatta apposta per far la festa al Santo e togliere i peccati dal mondo mettendoceli. Quando Alfonso venne a Sant’Agata disse: “Io vado in una diocesi un poco imbrogliata”. Il povero cristo sapeva di andare, come disse il suo biografo, tra “animali immondi” e la sua opera di evangelizzazione si trasformava in vera e propria missione di conversione. E chi doveva convertire il sant’uomo? I preti, quei preti – ben quattrocento tonache, un sacerdote ogni cento fedeli – che avevano donne e praticavano l’usura secondo la fraterna regola vescovile “fratello di religione, non di pane e provolone”. Ma più della conversione poté l’epurazione secondo le regole tridentine. I santagatesi quando seppero dell’arrivo di Alfonso dissero “abbiamo un vescovo santo” e si precipitarono a Napoli, come si usa ancor oggi, per farsi belli al cospetto di Sua Eccellenza e raccomandarsi nell’attesa della sua morte. C’era chi lo voleva morto più che vivo, meglio santo morto che santo vivo, così quando nella sua prima omelia dal pulpito di Papa Sisto gli venne una gran tosse, il canonico mormorò: “Signori miei, apparecchiamoci per ricevere l’altro vescovo”. I soliti zelanti e delatori riferirono in modo del tutto disinteressato ad Alfonso che disse: “Ah! Ah! Che badi a se stesso. Cascano più le pere acerbe che le mature. Io ho da veder rinnovato tutto il capitolo di Sant’Agata dei Goti”. Di lì a poco, mentre Alfonso rinnovava il capitolo, il canonico capitolò a passò a miglior vita.
I santagatesi amavano il loro vescovo santo ma lo amarono di più quando se ne andò e disse: “Mi ho levata la montagna di Taburno da sopra il collo”. Anche i santagatesi si tolsero un gran peso da sopra il collo, lo stomaco e l’anima che Alfonso voleva salvare e loro volevan dannare. Così quando il Santo salì alle stelle da dove scese Ninno, si fece una gran festa per portarlo sugli altari e venerarlo perché da che mondo è mondo è sempre più facile dar ragione ai morti che ai vivi. E la festa di Sant’Alfonso, con quel bel cattolicesimo pagano meridionale, era nella sua intima fibra un bagno di folla tra puzze e profumi, pane e pasta, tonache e vesti, zizze e mutande, tra fiori secchi e fiori freschi, tra chi la sapeva lunga e chi innocente imparava a peccare in quel solito vicolo oscuro in cui la vita rivela e abbraccia santità e oscenità.