di Antonio Medici
Nell’enogastronomia dilagano le eccellenze. In televisione, sui giornali, nelle trasmissioni radiofoniche (ancora esistono e vengono ascoltate, magari in podcast), negli incontri tra gli operatori, durante le degustazioni, nelle fiere, nelle enoteche e nelle gastronomie, nei menù, nelle declamazioni dei maitre, tra le parole ammuffite degli chef è tutto un pullulare di eccellenza: produzione d’eccellenza, prodotto d’eccellenza, un’eccellenza italiana, eccellenza di qua, eccellenza di là. Eccellente, si potrebbe piuttosto osservare, l’abilità degli strateghi del marketing e dei trend setter di appiattire intelligenze e linguaggio per rendere tutto fungibile, assimilabile, omologo. Non è difficile immaginare che tra qualche tempo, a breve in ogni caso, troveremo sugli scaffali dei negozi, con prezzi d’eccezione, bastoncini del capitano, eccellenza del surgelato, così come il pomodoro liofilizzato, eccellenza del made in chissà dove certificata dal bollino dall’associazione del polpo blu.
Secondo il vocabolario online della Treccani, eccellente è la qualità di chi è superiore agli altri o alle altre cose dello stesso genere, per merito, qualità, bontà. Presuppone l’istituzione di un confronto, dunque, l’eccellenza ed è qui che a ben vedere casca la questione semantica e non solo. I sapori che più deliziano il nostro palato, stupendolo, sono quelli caratterizzati da unicità, esclusività, ricercatezza. Che si tratti di un prodotto, il pomodoro del piennolo per esempio, o di un piatto come la salsiccia di pezzogna di Alfonso Iaccarino, il pregio sta nella bontà rara e non nel suo essere superiore a non si sa bene cosa.
Slow Food, coerentemente ai propri scopi ed alla carica ideale della propria azione, ha capito da sempre che l’eccellenza è mistificatrice ed ha istituito i presìdi, bastioni carichi di sapori da difendere e proteggere.
Ci vuol fatica, però, per erigere un bastione e non è detto che fuori dalle trincee slow non ci sia del buono.
Il navigatore tecnologico del terzo millennio che provi a “googlare”, ad esempio, <<eccellenza albicocca>> può imbattersi, addirittura, nella colomba di quelli che si pubblicizzavano con un mattacchione dagli occhi stregati e i capelli gialli, giusto qualche rigo dopo la prelibata albicocca pellecchia del Vesuvio. Tutto, insomma, può essere eccellente perché non sono noti i termini del confronto o sono costruiti ad arte. L’eccellenza è la madre di tutte le corbellerie enogastronomiche, a partire dalle classifiche, cui è naturalmente preposta.
Mettiamo al bando l’eccellenza, allora, anche in nome della nostra pellecchia. I laici del gusto, quelli che cercano il piacere del palato senza sovrastrutture ideologiche ed a prescindere dalle mistificazioni modaiole, i gastronomi più agguerriti e i cronisti più decisi, così come tutti quelli che amano la buona tavola si gongolano nella collezione di squisitezze, ripudiando l’idea dell’eccellenza giacché cercano un piacere sempre nuovo e mai finito.
La forza gastronomica dell’Italia, tra l’altro, da sempre risiede nella varietà che con locuzione più radical chic si direbbe diversità.
Evviva le squisitezze, a morte l’eccellenza.