Perché l’essere anziché il nulla? La domanda metafisica per eccellenza è un dente da latte: prima o poi è destinato a cadere per lasciare il posto al più solido e carnale dente del giudizio. Non ha senso chiedersi perché l’essere sia e perché è come è. L’uomo non conosce altra realtà – ossia l’insieme delle cose che sono – se non quella che è e vive e il nulla preso per sé non è neanche il nulla ma un nonnulla, una vacuità. L’essere e il nulla presi per sé, come se fossero due birilli da porre l’uno di fronte all’altro, sono solo due astrazioni mentali mentre l’unica realtà esistente è la loro interna lotta che ci restituisce, al di là dei fantasmi mentali, la concretezza del mondo nella sua tragicità perché sempre in contrasto con se stesso. La stessa lotta che attraversa tutta la nostra esistenza, dal primo all’ultimo giorno di respiro, e ci domina ma non senza lasciarci la possibilità di padroneggiare quel tanto che ci fa uomini le nostre passioni al fine di fare della vita un’opera.
Se lo scopo della metafisica è vano, giacché scinde ciò che il mondo ci dà da sempre unito, allora ciò che si può pensare e si può fare è una moderna filosofia dello spirito o, con parole più usuali, una conoscenza della storia che siamo. Guardare alla storia umana significa dedicare attenzione alle opere degli uomini che hanno avuto la forza di lavorare la vita fino a trasformarla in un tratto distinto e superiore. La nostra vita passionale ci preme tutt’intorno ma ciò che è destinato a restare e a dare un senso possibile alla nostra esistenza che scappa via come il vento è la vita dell’opera. Quest’ultima – l’opera – non è una fuga dalla vita, come se si scappasse, come se si avesse paura, ma un interno lavoro e lavorio della stessa vita che per sua natura chiede di essere elevata, superata e conservata. La forza della vita – quella che Croce chiama Vitalità – è equivoca e ambigua, orribile e terribile, magnifica e superba. La vitalità è la radice prima e ultima della nostra esistenza e accompagna, come una fedelissima compagna – forse l’unica -, tutte le nostre esperienze ed espressioni dandole il tono e l’animo. E’ nella vitalità che risiedono le passioni, smodate e moderate, è lì che bollono gli irrazionalismi, che prendono corpo i fanatismi, che ci decompongono le malattie, che ci straziano i lutti e, tuttavia, è proprio lì nello stesso cuore selvaggio della barbarie che si generano la civiltà, la cultura e l’opera.
Vita e opera sembrano far l’amore. Richiamano in modo semplice alla mente i versi foscoliani della corrispondenza d’amorosi sensi: la vita richiama l’opera e ne ha bisogno per non perdersi e decomporsi anzitempo e l’opera ha necessità di legarsi alla vita perché senza non solo non nascerebbe ma sarebbe anche inconcepibile. Per quanto sia forte e demoniaca, la vita ha una sua fragilità di fondo perché tende alla dispersione e alla dissolvenza. Dal canto suo l’opera proprio perché nasce dalla vita ne eredita la stessa forza e la stessa fragilità. Ma davvero nella storia dell’umanità creatrice non pare esserci altro modo per generare qualcosa di sensato e duraturo. Il valore del senso e della durata che sfida secoli e millenni è dato dall’universalità che si cela e rivela nell’opera. Costa fatica l’opera e spesso la fatica sembra non bastare e sapendo che nella creazione c’è, per quanto non visto, il concorso del mondo, l’autore o gli autori dell’opera fanno riferimento ad un’ispirazione o ad un aiuto estraneo che li ha come soccorsi nella genesi. La trasformazione, con lavoro e sudore, della vita in opera è il modo che gli uomini hanno di partecipare alla vita eterna e sembra quasi che quelle opere, che sono opere di bellezza e verità, utilità e bene, siano idee platoniche che conservano il mondo nel suo stesso essere-sensibile.
Tutta qua la vita umana? La vita operosa è tutto ciò a cui possiamo tendere e ambire? C’è sempre nella dolorante vita umana l’idea di trovare rifugio in un altro mondo in cui la lotta finalmente cessi e lasci il posto alla pace di una vita pacificata con se stessa. Ma vi è in questa ambizione che le religioni trasformano in mitologia un non nascosto egoismo in cui il piacere staccato dal dolore e il bene diviso dal male si sono già insteriliti. Il superbo orgoglio dell’intelletto, sia esso metafisico o comune o persino scientifico, ha la sua origine nella fragilità morale dell’uomo che vorrebbe liberarsi una volta e per sempre dai mali del mondo e della vita che ci fa umani, troppo umani. Ad un pensiero fasullo che vuole trascendere la vita e farsene padrone per liberarla nell’Aldilà o, peggio, nell’Aldiqua in modo definitivo e totale dai mali, dalle ingiustizie, dagli errori è da rispondere che ciò che ci permette di pensare e di agire per il bene della comune umanità ed esser liberi è proprio il necessario legame con il nostro imperfetto elemento vitale che riconosciuto e voluto nella sua natura passionale e bisognosa è già la redenzione del mondo dal male.