Le cronache nazionali e regionali ci dicono che il senso dello Stato è raro ma le cronache locali ci informano che il senso del ridicolo è rarissimo. Sant’Agata dei Goti, che non risparmiò critiche e battute salaci neanche a quel sant’uomo del suo vescovo Alfonso de Liguori, sembra essere diventato il paese del divieto di satira. Il comune, amministrato dalla sinistra, “autorizza” le feste popolari “a condizione che non siano eseguiti sketch, battute, canzoni o motti di spirito offensivo della morale, del buoncostume e comunque rivolti a personalità politiche o religiose”. Incredibile? Sì, ma tutto vero, anche l’italiano zoppicante.
Accade che per festeggiare la popolarissima Madonna delle Grazie i santagatesi si ritrovino in piazza, anzi, nei vicoli del centro storico e che l’associazione Pro Loco, che ha rinverdito la tradizione, comunichi al comune l’intenzione di trascorrere qualche ora della sera e della notte del 2 luglio in compagnia di amici, di famiglie, di giovani e di vecchi per mangiare, bere, ballare e – chi può – amare. Insomma, una tradizionalissima festa popolare che da che mondo è mondo non si fa per concessione governativa ma, semmai, per grazia ricevuta. Invece, nel comune del vaso di Assteas che vedeva Zeus nelle fattezze di un toro, si riscoprono, con temerario sprezzo del ridicolo, il diritto divino e la lesa maestà per tutelare, con autorizzazione amministrativa firmata dal dirigente, “morale e buoncostume” e, avvertendo vigili e carabinieri per il controllo e la censura, si vietano “sketch, battute, canzoni o motti di spirito”. Quindi, è severamente vietato il divertimento, non si possono eseguire scenette spiritose, tantomeno è possibile una modesta canzonatura che è vista o come reato o come peccato. Ma in questo specialissimo divieto di satira in una festa di piazza colpisce l’uso dell’avverbio “comunque”. Qui si rasenta il misticismo: lo zelo del dirigente arriva a sostenere che si concede di far festa a condizione che non ci siano sberleffi e se proprio qualcosa dovesse scappare, beh, “comunque” motti e battute non dovranno essere rivolte “a personalità politiche e religiose”. Insomma, che nessuno si permetta di criticare e satireggiare il sindaco o il vescovo, l’assessore o il parroco perché la critica e la satira sono un’offesa della morale e del buoncostume.
Se non fosse tutto vero, scritto nero su bianco, ci sarebbe da ridere come si ride a vedere la celebre scena della lettera di Totò e Peppino in Totò, Peppino e la malafemmina o Benigni e Troisi che scrivono al Savonarola in Non ci resta che piangere. Ma, forse, non ci resta che ridere proprio perché è tutto vero: se chi amministra – il sindaco è il geometra Carmine Valentino – non sa ridere e arriva a vietare la satira, chi è amministrato è bene che rida due volte per tale insipienza e critichi, satireggi, sfotta soprattutto chi crede di essere nientemeno che intoccabile per diritto divino. Siamo pur sempre nella terra delle Forche Caudine dove, per sbeffeggiare e criticare e persino umiliare, si inventò un’arma letale: il pernacchio.
tratto dal Corriere del Mezzogiorno del 3 luglio 2015