Leggendo su Il Foglio un articolo di Mario Andrea Rigoni dedicato a Ruggero Guarini – il caro Ruggero, scomparso due anni fa – mi sono imbattuto in questa espressione: il fondo selvaggio della vita. Che cos’è? La radice del bene e del male della nostra vita che nella sua umanità è la continua redenzione della carne e riconciliazione del mondo con se stesso. Guarini aveva uno spiccato interesse per il fondo selvaggio della vita perché sapeva, tanto istintivamente quanto razionalmente, che in quel “luogo” in cui si toccano piacere e dolore, e si riconoscono come fratelli la paura e la meraviglia, c’è il sale della vita o, almeno, l’origine vitale della nostra esistenza della quale ambiamo ad essere padroni e ne siamo, invece, pellegrini.
La cultura religiosa, ma anche il pensiero comune e persino la razionalità scientifica, isolano il male – identificato di volta in volta con la natura, la passionalità, l’irrazionalità, l’alterità – fino a farne un altro mondo o un mondo nel mondo conficcato come un cuneo in un corpo estraneo. Sennonché, la nostra vita concepita dualisticamente diventa per davvero qualcosa di incomprensibile ed oscuro e il male che ci portiamo dentro, che si identifica con il mondo delle passioni e della vita reale fatta di gioie e dolori, avversità e lotta, diventa un diavolo che non si lascia più redimere da alcun dio perché è concepito come un corpo estraneo che va scacciato, un’impurità. La coscienza filosofica smonta la mitologia religiosa e mostra come la dualità tra senso e spirito o essere e pensiero è solo un fantasma creato dalla nostra mente che svanisce come tutti i fantasmi al cospetto della lucidità che non per questo, però, debella il male che, anzi, solo ora acquista corpulenza e fornisce alla vita morale e alla vita mentale il carburante di cui necessitano per vivere una vita degna di essere vissuta. In fondo, è proprio il fondo selvaggio della vita che rende la vita spirituale, cioè la attiva e storica vita umana, la creazione di se stessa in cui la vita trasforma se stessa in sgabello o in appoggio o in una scala per elevarsi sopra di sé in un gioco inevitabile e perenne di salite e discese, cadute e ascese. Il diavolo è la vita stessa e Dio, lungi dall’essere calmo e pacifico, è indiavolato.
Il fondo selvaggio della vita mi ha fatto ripensare a un saggio di Croce intitolato Le due scienze mondane che sono l’estetica e l’economica che sorgono nel mondo moderno figlio del Rinascimento. Le due scienze riconoscono sul piano della conoscenza e sul piano della pratica il ruolo che svolge il senso per cui non c’è conoscenza senza sensibilità e non c’è morale senza desiderio. Con le due scienze mondane, che si rivolgono agli atti sensuali della vita – l’espressione e l’intuizione, il piacevole, l’amoroso e l’utile -, il senso si spiritualizza ossia diventa parte necessaria della vita razionale e lo spirito, ossia la vita razionale, si sensualizza e acquista concretezza, integrità, armonia. Ma l’armonia è sempre da conquistare, la concretezza è sempre da rinsaldare, l’integrità è sempre da ristabilire perché il fondo selvaggio della vita alimenta impetuosamente il pensiero e la morale che da parte loro per essere qualcosa hanno da essere pensieri vivi e virtù lottanti e perciò si portano con sé i segni della vita e della lotta che non conoscono gioie che non saranno sofferenze e non sanno di conquiste che non abbiano in sé dolori rasserenati. Tutto il pensiero filosofico più vero, ossia quello che pensa la vita seriamente sulla spinta del bisogno e non per sterili ripetizioni scolastiche, ruota intorno al rapporto con il fondo selvaggio della vita che letteralmente ci mette al mondo e ci toglie dal mondo. Il mito più famoso di Platone – la Caverna – è la messa a tema di questo tema e quel cavallo nero dagli occhi iniettati di sangue di cui si narra in un altro mito è ancora il fondo selvaggio della vita: perché per quanto vogliamo essere un cavallo bianco che non suda mai ci portiamo dentro necessariamente un cavallo nero con gli occhi iniettati di sangue e per quanto siamo civili o immaginiamo di esserlo veniamo pur sempre da una caverna e ritorniamo pur sempre in una caverna e nel nostro fondo abbiamo caverne e caverne, spelonche e spelonche dalle quali non usciamo mai, se non per conquiste e lotte, vittorie e sconfitte, e la caverna è per noi ciò che il carapace è per la tartaruga.
Una volta Enzo Paci scrisse a Croce e Nicolini alcune lettere e in una diceva che negli anni passati in Germania, in un campo di concentramento, “la grande ombra di Vico venne a trovarmi e mi sembrò di sentire che tutta la sua opera era stata una lotta eroica contro la ingens sylva della barbarie”. Sta a noi trasformare il fondo selvaggio della vita in civiltà o in barbarie, in un elevamento o in abbassamento, fare del fondo che bolle come il fuoco del vulcano un bene o un male. La “selva oscura” come la chiama Dante, o la vitalità “cruda e verde come la definisce Croce, è una forza terribile che ci può far sentire divini o ci può far invocare la morte. Certo è che senza il fondo selvaggio della vita non saremmo nulla e il danno peggiore non sta nell’abbandono alla sfrenatezza e nella pura passionalità ma nel ritenere che sia possibile esercitare un controllo totale del “fondo” che, invece, ritraendosi e non concedendosi alle mire della volontà di potenza ci mostra nudi al cospetto di noi e della storia. La barbarie ha tanti modi di ripresentarsi nel corso degli avvenimenti e non sempre i barbari si presentano sui carri e sulle bestie, non sempre sono pelosi e passionali, a volte sono raffinati e tecnici e hanno ingegno da vendere ma non un’anima da ascoltare.
Tuttavia, non è detto che il fondo selvaggio della vita sia nel fondo di noi stessi, nelle profondità cavernose del nostro scantinato. Il fondo selvaggio della vita è più in superficie di quanto non si creda. Se è vero che siamo fatti a immagine di Dio è altrettanto vero che siamo fatti a immagine degli dèi, solo che a differenza dei Greci e degli Antichi non abbiamo più Afrodite, Ermes, Oceano, Apollo e le debolezze, le voglie, le forze, le paure, i desideri insomma il patimento della psiche deve trovare altre vie per la “cura dell’anima”. Il fondo selvaggio della vita coincide addirittura con la nostra esistenza nuda e cruda dalla quale non possiamo non partire e ripartire ogni qualvolta riteniamo di prendere in mano la nostra vita e darle una regolata secondo virtù e conoscenza. Per usare un gergo noi siamo gettati nell’esistenza e quella cosa che si chiama filosofia altro non è che la messa a tema provvisoria e storica di questo nostro essere gettati per il quale persino la nostra linguamadre ha la parola giusta: iettat’, si’ proprio nu’ iettat’. La conoscenza è il bisogno di liberarsi dai patimenti dell’anima per riconsegnarsi alla vita gioiosa e dolorante che ci accolse e ci mise al mondo. Il fondo selvaggio della vita è un giardino di meraviglie e di orrori che va custodito dalla vanagloria umana perché in quel fondo selvaggio c’è la radice ultima della nostra libertà e della nostra ingenua potenza. Non solo viviamo, ma c’è chi ci lascia vivere. Come diceva il caro Ruggero ripetendo il primo coro dell’Agamennone di Eschilo: “Signore, chiunque tu sia”.
(dedicato a Ruggero Guarini, amico non dimenticato)