di Antonio Medici
Intorno alla metà del 1800 un prefetto di Bari, non è dato sapere perché, né come, diffuse la coltivazione del carciofo nell’agro di Petra Pucina (Pietra Piccola) oggi Pietrelcina. Dunque nel XIX secolo questo paese, oggi ricadente in provincia di Benevento ed all’epoca invece parte integrante del Principato Ultra, sottratto, dunque allo Stato Pontificio dominante nel capoluogo sannita, ebbe la sorte di dare in natali al futuro San Pio da Pietrelcina ed a quello che è oggi noto come carciofo di Pietrelcina.
Ecotipo del carciofo romano, questo vegetale armato, come lo definisce Pablo Neruda nella sua “Ode al carciofo”, assume in questo territorio collinare particolari caratteristiche organolettiche che ne rendono prelibato il consumo e l’impiego in numerose preparazioni.
Le caratteristiche principali consistono nella sua dolcezza o altrimenti delicatezza del gusto amaro che invece caratterizza gran parte dei carciofi più noti e più diffusi, e l’estrema morbidezza delle inflorescenze destinate alla cucina. Cresce tra l’altro senza spine.
Per il più che consueto infame destino di molti prodotti pregiati della terra campana, la scarsa attitudine a cooperare degli agricoltori ne rende limitata la produzione e quindi la notorietà sui mercati. Non un consorzio, non una cooperativa di produttori, non un’associazione. Solo la Pro Loco dal 1976 organizza una sagra annuale che come tutte le sagre rappresenta un metodo oramai fuori moda, ad esser generosi nel giudizio, per promuovere il prodotto.
Donato De Palma è un agricoltore che porta avanti vari piccoli campi di carciofi. L’uomo è gentile, accogliente, entusiasta della sua pur limitatissima produzione. Nella cascina, tra uova fresche, caciotte in stagionatura, un prosciutto e tre capicolli appesi, fa apprezzare la schiumetta lasciata sulle brattee dalle chioccioline come attestazione dell’assenza di pesticidi ed altre diavolerie chimiche, poi con la prima lama capitata sottomano spacca il carciofo in due, esalta l’assenza di “peli” interni e con modi gentili presenta come irrinunciabile l’assaggio a crudo. Si avverte un gusto vegetale gradevole, appena amaro nel finale e l’astringenza del tannino. E’ un sapore intenso ma non fastidioso. Confessa di aver avuto resistenze a piantare questa pianta perenne per l’arduo lavoro manuale che richiede, “il carciofo si deve zappare a mano e poi in tempo di raccolta bisogna passare ogni giorno a coprire le mammarelle – i primi carciofi spuntati da ogni pianta – con le foglie della pianta stessa per evitare che il sole le faccia aprire e per raccogliere ciascun pezzo al punto giusto di maturazione”. La redditività è buona, superiore a quella che assicurava un tempo il tabacco. La moglie dell’agricoltore, colei che l’ha indotto alla coltivazione, ci dice che un tempo il carciofo a Pietrelcina svolgeva la medesima funzione economica del maiale: assicurava il saldo dei debiti contratti durante l’anno per vivere e coltivare. I carciofi più grandi, raccolti in fasci di quattro, venivano portati al mercati cittadino e venduti ad ottimo prezzo. Il solo ricavato dalla vendita di ciascun raccolto, dunque, assicurava la sopravvivenza delle famiglie.
Difficilissimo l’abbinamento del vino col carciofo, è quasi una adagio noto a tutti. Il nostro Donato, benché fossimo a digiuno nel cuore di un pomeriggio soleggiato, scende in cantina e risale con un bianco prodotto dalle poche uve che raccoglie nella piccola vigna a margine delle coltivazioni di carciofo. Blend di falanghina e trebbiano, vinificazione a occhio con fermentazione interrotta prima che i lieviti consumassero tutti gli zuccheri. Un bevanda poco alcolica e poco zuccherina. Un vero vino naturale. Sarà stata l’amabilità del paesaggio o la visione delle caciotte, sarà stato il fascino del racconto di persone semplici dal cuore aperto, sarà stato che le vigne per qualche insondabile processo si siano sposate con i vicini carciofi, sta di fatto che l’abbinamento è stato esaltante e forse irripetibile.