Matteo Renzi è toscano ma non solo non avrà mai letto i tre grandi toscani della nostra letteratura ma, forse, neanche Collodi e il suo universale Pinocchio. Se lo avesse letto non avrebbe fatto la figuraccia che ha già fatto con la riforma della cosiddetta “buona scuola” che è fallita ancor prima di esser votata. Il Pinocchio di Palazzo Chigi aveva annunciato ai quattro venti, con slide e messaggi promozionali, che il preside sarebbe stato “l’allenatore della squadra” che avrebbe fatto “il super sindaco” che avrebbe “assunto direttamente i docenti della sua scuola” e che, dopo averli valutati, avrebbe premiato i meritevoli. Invece, l’allenatore quasi rischia la panchina, il sindaco è un re travicello, le assunzioni aggiuntive spettano ancora all’ex Provveditorato e il merito è come il senno di Orlando. Insomma, la riforma – come già si sapeva – non riforma nulla.
Riformare significa mettere in forma ma se c’è una cosa che nessun governo è ormai in grado di fare è proprio formare una nuova scuola. Il ministro Giannini disse che con l’assunzione di centinaia di migliaia di precari si sarebbe messa la definitiva parola fine sulla pratica delle supplenze. E Renzi – tanto per aggiungere cretineria a cretineria – aveva detto: “Basta precari, stop alla supplentite”. Ora il ministro dell’Istruzione, che è a capo di una mostruosità sovietica qual è il monopolio scolastico italiano, dovrebbe sapere che l’idea di avere un organico sempre completo e una perfetta corrispondenza tra cattedre e insegnanti è solo platonica, tutt’al più è kantianamente regolativa ma non è reale né attuabile. L’idea che si possa controllare da capo a piedi tutta la scuola non solo è sballata di per sé ma, pur confidando sulla grande volontà di potenza dell’accentramento ministeriale suddiviso in regioni, è irrealistica. Un ministro dovrebbe saperlo semplicemente perché dovrebbe conoscere la storia della macchina che aspira a guidare. Un tempo, quando la scuola di Stato era ridotta nelle sue dimensioni, lo si poteva ancora fare. Ma oggi non lo si può più fare perché lo statalismo non regge più prima di tutto per ragioni di quantità. Cioè: non solo è un pessimo modo di governare, ma per i suoi stessi troppi ed eccessivi pesi è diventato un modo inutile di governare.
Le misure che il governo Renzi ha cercato di attuare, facendole passare per delle geniali trovate del ragazzino di Collodi, sono molto più semplicemente il tentativo dilettantistico di dare corpo alla platonica autonomia scolastica avviata da Luigi Berlinguer. L’idea, già ritrattata, di riconoscere maggiori funzioni ai presidi va in questa direzione (ed è una direzione, ad esempio, che non piace ai sindacati e la scuola italiana è scuola statale-sindacale). Invece, l’assunzione in massa dei precari va in direzione opposta (e infatti piace ai sindacati che la vogliono aggiornare per eccesso: Todos caballeros). In un sistema scolastico napoleonico, che avrebbe fatto impallidire lo stesso Bonaparte, l’autonomia è di per sé un elemento contraddittorio e di disturbo: è facile a dirsi, è impossibile a farsi. Se non si hanno né le capacità, né l’interesse, né la vocazione al martirio per trasformare le scuole statali in scuole autonome e gli insegnanti in liberi professionisti, allora, è meglio lasciar perdere e fare l’unica cosa dignitosa e civile che un governo e un ministero dell’Istruzione dovrebbero fare: lasciar perdere la retorica nauseante degli slogan scolastici e dedicarsi con serietà alla buona amministrazione con controlli e concorsi.