di Antonio Medici
I migliori cento vini d’Italia sono centotre. La calcolatrice degli esperti degustatori di Wine Spectator, “la più influente rivista americana del settore”, attraversando gli oceani per esplorare le nostre produzioni vinicole, deve aver subito se non altro un pernicioso influsso magnetico che ne ha confuso gli algoritmi.
La patinata raccolta dei centotre “finest italian wines” è stata diffusa dal Corriere della Sera e presentata a Verona il 21 marzo scorso, il giorno prima dell’apertura del Vinitaly.
Martin Shanken, direttore ed editore della rivista, dice di voler rappresentare la diversità e la qualità del vino italiano da una prospettiva americana. Una prospettiva piuttosto piatta giacché, riclassificando per regione i cento che sono centotre, si scopre che il 30 per cento di questa diversità per Wine Spectator risiede in una sola regione, la Toscana. Se alla Toscana aggiungiamo il Piemonte con il suo 16% il panorama di diversità italiana si esaurirebbe per circa la metà in due regioni su 21.
Non vi è dubbio che i produttori di Toscana e Piemonte abbiano consolidato nel corso degli anni primati per qualità, capacità di stare sul mercato e modelli gestionali; è altresì vero che alcuni tra i vini più rappresentativi del nostro paese a livello mondiale si producano in quelle due regioni. La ricchezza e la varietà vitivinicola del nostro paese, tuttavia, non può essere in larga parte rappresentata dai grandi campioni di Brunello, Barolo e toscani vari, battuti nelle aste di mezzo mondo. C’è molto altro. Le produzioni d’Italia migliorano, il gusto cambia ma Wine Spectator non se accorge e resta fedele al modello supertuscan. Magari per il mercato americano va bene così ma non si dica allora di voler rappresentare la diversità italiana.
L’ubriacatura mondiale di merlot, cabernet, chardonnay e vini morbidi omologati mostra segni di cedimento a livello globale, il gusto dei consumatori riprende ad apprezzare vini capaci di esprimere aromi, profumi e fragranze peculiari anche per effetto della maggiore enfasi attribuita ai temi ambientali e della biodiversità. Questo, insieme all’impegno dei produttori, ad esempio è uno dei motivi del crescente successo dei vini campani che nella classifica americana sono presenti solo con cinque etichette, una in meno del Trentino Alto Adige, di cui una sola di bianco nonostante si producano Fiano e Falangina di qualità tali da poter finalmente competere con le più apprezzate etichette del Veneto e del Friuli Venezia Giulia.
Impariamo, dunque, a diffidare delle classifiche americane almeno sinché non sintonizzino, insieme alla calcolatrice, i propri criteri di valutazione sull’apprezzamento sincero delle peculiarità dei territori e delle produzioni.
Proponiamo quindi ai degustatori di Wine Spectator dieci vini ottimi vini campani che non ha saputo trovare o apprezzare, secondo noi: Taurasi Poliphemo 2010 Luigi Tecce, Aglianico del Taburno Kapnios 2011 e Falanghina del Taburno Donna Laura 2012 Masseria Frattasi, Campantuono Falerno del Massico 2009 cantina Papa, Falanghina dei Campi Flegrei Agnanum 2012, Fiano del Cilento Pietraincatenata Luigi Maffini, Falanghina Via Del Campo 2011 Quintodecimo, Greco di Tufo Vigna Cicogna 2013 Benito Ferrara, Ischia Biancolella Tenuta Frassitelli 2012 Casa d’Ambra, Coda di Volpe 2012 Oppida Aminea.