di Antonio Medici
A ridosso della riviera, lì dove il duca Caracciolo di San Teodoro, per il tramite del colto ingegno dell’architetto Belchi, accorpò e ristrutturò in stile pompeiano tre palazzine affacciate sul mare acquistate allorquando Ferdinando I di Borbone, sovrano del Regno delle Due Sicilie, riconobbe all’antico borgo di Chiaia la dignità di quartiere della città, volteggia oggi con grazia eccentrica ed erudita armonia Mimmo Alba, uomo del regno. “Uomo d’olfatto”, anzi, come asserisce, formatosi tra gli effluvi odorosi della pasticceria del nonno a Caltagirone, “uno dei più grandi pasticceri di Sicilia”, poliedrico e radicale. Si divide tra cucina e sala senza risparmio di fiato, giacché nella sua elaborazione piatto e racconto sono complementi essenziali. Già sol per questo, merita un encomio senza riserve. Non si presenta, beninteso, con la posa stantia di chef infiacchito da taglieri, tegami e fumi che recita il copione retorico del territorio, della creatività, della ricerca; Alba è sofisticato e vanitoso, probabilmente anche presuntuoso, si espone (cucina a vista, presenza assidua in sala) perché pretende che sia apprezzato o almeno considerato il lavoro laborioso che conduce ai sapori schietti e pieni dei suoi piatti. Corre deliberatamente, insomma, sul filo dell’invadenza seccante ma non casca mai per via della grazia del ballerino che è stato e della cultura dei suoi studi e delle sue esperienze.
Solo un personaggio così può permettersi di servire uno “spicchio di aglio su zucca spugnata” di rara bellezza ed inusitata delicata intensità o anche il tubetto, formato di pasta ripudiato dagli chef e di cui però su queste colonne abbiamo pubblicato l’apologia, con macco di fave, bietola e gamberoni rossi di Mazara del Vallo, impreziositi da brillanti e cangianti frammenti di carapace disidratato e frullato.
Sempre ardito, ma virando nella complessità, il “panino siciliano anni 50” con mortadella e sgombro.
Accostamenti discordanti in apparenza, con la sapiente gestione delle dosi e delle tecniche creano intense armonie come nella sarda a beccafico, seducente composizione di pesce e formaggio pecorino su sfoglie di cipolle di Tropea e nel panino farcito con pomodori secchi, capperi e spezie che sprigiona sentori quasi balsamici di sicilianità.
Gli otto “gnocchi di friarielli e baccalà” con foglia di cavolo nero disidratata, serviti ciascuno su pomodoro confit, rappresentano forse la sintesi delle qualità della cucina di Alba: nettezza ossia riconoscibilità limpida dei sapori, essenzialità ovvero sublimazione del sapore capitale di ciascun ingrediente, consonanza tra sapori, odori e colori, radici nella terra di Campania e Sicilia, bellezza, gioia.
Il maialino al mosto d’uva fragola è un concentrato di aromi di terre assolate ove la secchezza del suolo, in questo caso della carne tenerissima di maiale, trova contraltare nella dolcezza succulenta delle erbe aromatiche e dei frutti.
Si chiude con il “cannolo siciliano rotto”. Alba la impone. Tra una parola e l’altra, come un abile mago, senza che si abbia il tempo di cogliere il gesto, nebulizza un’essenza di fico. “Mio nonno gustava i cannoli seduto sotto un albero di fico ed io voglio riprodurre quel piacere per i miei ospiti”. Cialda spessa e friabile, densa in bocca, ricotta di pecora dolce, gocce di cioccolato, su tutto il sapore ammaliante di superba frutta candita. Particelle di fico in sospensione sotto la luce intensa del lume in terracotta. Lirismo onirico.
Sala al limite della perfezione per colori, materie, luci, comfort. Servizio rapido, attento, intelligente nel dosare formalità e cordialità.
Carta dei vini con punte di ricercatezza, tutta meridionale centrata principalmente su Sicilia e Campania. Ricarichi onesti. Prezzi sensibilmente al di sotto di quel che ci si potrebbe attendere per la qualità complessiva dell’offerta. Menù degustazione (che non abbiamo provato) € 60.
Cantina San Teodoro
Vico Satriano, 12 – Napoli
081 18990558