Bisognerebbe mettersi d’accordo sul significato dell’espressione “riforma della scuola”. Il governo Renzi – presidente del consiglio, ministro Giannini, sottosegretari sparsi – usa questa formula e lascia intendere che con la riforma che chiama #labuonascuola nulla sarà come prima. Ma nei fatti concreti – gli unici che contano e hanno senso – non c’è nessuna riforma alle viste. Dunque, di cosa si discute? Di una serie di provvedimenti, che possono essere anche positivi e persino necessari, che il governo ha ripreso da quell’ufficio delle idee perdute che è il ministero di viale Trastevere. Un provvedimento amministrativo, ad esempio, è quello annunciato per i concorsi: “Dal 2016 si diventerà insegnante solo tramite concorso”. Nulla di strabiliante: è solo il ripristino di una normale necessità in un sistema scolastico di tipo napoleonico qual è quello italiano. Prima di attuarla, però, il governo farà passare in cavalleria una cosa come circa 120mila o 150mila precari che, purtroppo, sono una specialità italiana che la scuola napoleonica – scuola di Stato – non prevederebbe.
Altro provvedimento è quello del buono scuola o della deducibilità delle rette scolastiche pagate dalle famiglie alle scuole private. Si tratta di una soluzione che già il ministro Berlinguer nel secolo scorso avrebbe voluto attuare ma non vi riuscì. E’ un provvedimento persino ovvio e banale ma che già suscita polemiche ideologiche del tutto insensate dal momento che le scuole private sono paritarie ossia scuole statali gestite da privati e le famiglie che le scelgono – famiglie con redditi assolutamente normali – non si capisce perché dovrebbero pagare il servizio scolastico due volte: tasse e rette. Il buono scuola è una normale soluzione fiscale che si adotta nell’ambito del funzionamento del sistema della scuola di Stato.
C’è poi il provvedimento per il merito degli insegnanti: restano i cosiddetti “scatti di anzianità” – che è un’involontaria espressione ironica – ma si introduce la possibilità per il dirigente scolastico (preside) di premiare i docenti che ritiene meritevoli. Anche in questo caso il provvedimento non è nuovo ma vecchio: esiste da quando i presidi sono stati trasformati, con il giuramento di San Michele, in dirigenti scolastici. Ma in cosa consiste il merito di un insegnante? E come si fa se il dirigente – perché può capitare anche questo, naturalmente – è meno bravo dei docenti? E’ molto probabile che il merito del docente poco o nulla riguardi davvero il suo lavoro di insegnante mentre molto avrà a che fare con certificazioni, aggiornamenti e ogni ben di Dio della burocrazia ministeriale che è la cosa più sciocca, noiosa e lontana che si possa concepire dal duplice lavoro dell’insegnare e dell’apprendere. Ma queste sono le incongruenze legate al tipo di scuola che abbiamo e la scuola italiana – si è detto – è napoleonica o, meglio, vorrebbe esserlo senza neanche intenderlo.
Come si può vedere, dunque, in atto non c’è nessuna riforma della scuola ma solo dei provvedimenti che riguardano soprattutto l’aspetto amministrativo del governo ministeriale della scuola. Una vera riforma della scuola si avrebbe se tutti – governo, insegnanti, giornalisti e informazione varia – la si smettesse di usare la retorica espressione “riforma della scuola” che lascia intendere che in ballo c’è una grande e significativa decisione mentre in concreto si sta discutendo di affari al limite del privato con assunzioni e redistribuzione di reddito. Le riforme della scuola non si possono fare ad ogni cambio di governo e, infatti, non si sono mai fatte. Ad ogni cambio di governo ci sono da più di quarant’anni dei provvedimenti che hanno di volta in volta modificato in peggio qualcosa nell’ambito dell’ormai non più governabile sistema monopolistico della scuola di Stato. Le riforme della scuola non sono infinite ma solo due: o scuola di Stato o scuola libera. Ma in Italia, non solo il governo, anche la stessa cultura nazionale non è capace di discutere con serietà e cognizione di causa dell’argomento che riguarda non a caso la prima delle libertà civili. Cosa resta? Solo quello che, usando l’espressione di una scrittrice come Marguerite Yourcenar, possiamo chiamare il giro della prigione.