di Antonio Medici
Colmo di parole, chiacchiere e lasagne il gastronomo si abbandona al primo tiepido sole, radioso tra il cielo celeste, il verde dei monti che si lascia alle spalle e la striscia grigia di asfalto lunga e tortuosa che gli si para innanzi come un nastro srotolato. Destinazione il blu intenso e cupo del mare schiumoso e freddo ma comunque generoso di saraghi, gronghi e palamite che, valicata la collina di Posillipo, mani e volti arati da corde, vento e sale dal sale e dal vento hanno saputo raccogliere e rendere disponibili.
Tenute chiuse le guide con le segnalazioni da verificare, gli appunti sulle taverne da scoprire e le masserie da esplorare, abdicata l’arrampicata per il tasting dei vini della cantina abbarbicata sopra Agnano, riposti i moleskine per le annotazioni sui morsi e sui sorsi, estratta la maledetta, almeno in misura esattamente inversa alla sua dimensione, micro sim card telefonica conficcata in un angusto slot dello smartphone, sì da essere inestirpabile senza una lesione del polpastrello, si parte, finalmente, alla cieca.
Il moto perpetuo e veloce della moderna zattera dell’Odisseo alla ricerca di anfratti di italici sapori in cui trovar periodico ristoro, regala un vento apparente che mitiga l’aria surriscaldata della scatoletta metallica mobile. Passa, così, piacevole il tempo e il tragitto che conduce alla suggestiva decadenza dell’area industriale, disordinatamente urbanizzata, a ridosso del mare. Non v’è dubbio che in queste acque, ora turchesi, ora cobalto e nel sole che le irradia insieme alle poche terre sopravvissute alle colate di cemento, giaccia una ricchezza sovrannaturale capace di esprimersi in delizie per i nostri sensi e anche di addolcire la bruttezza che cuori malversati hanno deciso di infliggere ad una terra altrimenti votata alla bellezza. È bene proseguire a piedi per capire meglio il paradosso, prefigurando di completare l’esperienza del dono sovrannaturale del bello e del buono su una tavola qualsiasi, la prima che possa apparire in qualche misura intrigante.
Centinaia di metri, tanto asfalto e poi, con i morsi della fame sempre più profondi, la strada prospiciente il mare cambia aspetto; una mano in armonia col mondo ha disegnato un bel passeggio e si susseguono anche bar, trattorie, ristoranti. Se anche questi locali o una minima parte di essi fossero in armonia con la forza sovrannaturale della bellezza e del buono saremmo in paradiso. La tovaglia sporca, invece, il barista disordinato, i menù plastificati, slabbrati e appiccicosi, i banchi colmi di verdure grigliate, immerse in oli paglierini rilucenti al sole e poi pizzette, brioche e arancini trasudati in vetrine grondanti goccioline di vapor acqueo condensato a rappresentare, cruente come fossero di sangue, la sofferenza di quelle che avrebbero dovuto essere delizie tentatrici, denunciano, tutti questi segni, l’incombere del pericolo e la brutalità dell’uomo moderno, cannibale disposto ad annichilire gli sventurati che decidessero di accomodarsi.
Disorientati tra bellezza naturale, fame e disgusto al tempo stesso, si imbocca la via secondaria perché, stana legge, il buono spesso si nasconde ai margini della via maestra.
Le viuzze delle case dei pescatori, vecchie insegne che si intravedono disegnate sugli intonaci e finalmente una locanda che appare sincera, umile ma accogliente.
“Cosa prende?”; “cosa mi consiglia?”. La domanda espone a rischi indescrivibili se il titolare o il cameriere sono poco inclini alla sincerità ma il locale fiducia. Segue brevissimo dettato di verdure crude e cotte. “Vengo da lontano, ho camminato molto, preferirei un primo a base di pesce”,
“È mercoledì delle ceneri, signore. Noi per oggi cuciniamo solo verdure”. Inutile giocare anche la carta storica del pesce nei giorni di magro perché qui sono precettori di fede oltre che ristoratori.
E penitenza sia.
Tra Bagnoli e la Capitaneria di Porto di Pozzuoli