Il corpo è l’essere più leggero che ci sia quando sta bene. Diventa il più pesante quando sta male. E’ il male, non il bene, che ci fa conoscere il corpo. Il corpo sano non avverte se stesso. E’ con la malattia che ci sentiamo e avvertiamo. La salute astrae dal corpo il pensiero e crea la metafisica che va al di là delle cose fisiche. La malattia è un corpo a corpo con il corpo e il pensiero si percepisce radicato nelle membra senza le quali non avrebbe vita. Il corpo malato rivela la condizione umana. L’umanità è per sua natura sofferente. Il corpo che patisce la malattia mostra una sua intima vitalità come a volte non accade nel corpo sano. In Leopardi la malattia diventa forma di conoscenza e il pensiero di Nietzsche non sarebbe concepibile senza il suo patimento che sfocia nella follia. Si può soffrire a tal punto da perdere il bene della ragione che è sopraffatto dalla pesantezza del corpo. La salute, tanto mentale quanto corporale, è una questione di equilibrio.
Nell’idea orfica che il corpo sia la prigione dell’anima c’è un nucleo di verità. Tralasciamo la filosofia e anche la religione, guardiamo il malato. Cos’è se non uno spirito chiuso in un corpo? Con parole più laiche (che, però, hanno origine nella tradizione mitica): cos’è se non un’attività vitale chiusa in un corpo diventato pesante? Il malato è infermo. Il corpo, che dipende e non dipende dalla mente, afferra lo spirito cosciente e lo lega a sé e lo spirito in quella condizione conosce se stesso. Sono esperienze abbastanza comuni: alcune malattie, anche dopo il ristabilimento, cambiano la vita.
Ci sono, però, casi estremi in cui la malattia non dà allo spirito alcuna possibilità di fuga. In questi casi estremi il corpo malato è proprio il carcere orfico e platonico che l’anima, se ha conservato la coscienza di sé, aspira a lasciare. La morte appare una liberazione. Non è un caso che la morte abbia nelle culture d’origine dei popoli questo significato di fine di un tormento. Il nostro attaccamento alla vita – nella cultura ufficiale – non ci permette di vedere la fine naturale del ciclo vitale come fine di un dolore e di una condizione non più umana.
Il male fisico è originario. Non c’è modo di superarlo definitivamente perché da lui dipende lo stesso principium individuazionis che altro non è che il detto metafisico di un fatto fisico perché la realtà – insieme delle cose – è formata dall’essere-determinato nella sua inevitabile molteplicità. Il male fisico ha un fondo metafisico, come se lo stesso essere per vivere fosse malato. E il male fisico – che accomuna l’umanità, come fosse il vero arché – è la possibilità della libertà che è l’origine felice del male morale. Se non ci fosse il male originario – quello che la tradizione religiosa chiama il peccato originale – gli uomini non avrebbero l’occasione del riscatto e la loro differenza dagli animali, che soffrono come noi, sarebbe nulla. Il peccato è una felix culpa e il male fisico altrettanto. E’ un male che si può trasformare in un bene, secondo quel pensiero che mette a posto ogni cosa con troppa facilità perché guarda l’umanità sofferente con gli occhi di un Dio. Mentre, forse, l’umanità va vista guardando il Christus patiens perché il singolo uomo nella sua vita è il Christus patiens che patisce e soffre dolori terribili e casi atroci – come ripeteva Croce – “e ognuno di noi ne porta il ricordo del quale a volte non trova modo di disfarsi e pensa che solo con la morte potrà non più offenderlo”. Il fondo della vita umana è la lotta che si affronta senza lamentazioni. A volte, però, si soccombe e l’animale morente ha la forza dignitosa di parlarci con il suo indicibile dolore. Ci sono casi in cui l’individuo è cancellato dal male fisico ed è crocefisso, isolato come un fiore morente in un sordo deserto.