Filosofia e pensiero sono l’una il rovescio dell’altro. Il pensiero non è tutta la filosofia ma la filosofia senza pensiero è inconcepibile. Il pensiero è la vita della vita filosofica, il che significa che è la vita della vita morale. Il pensiero o è vitale o non è. Il riferimento costante del pensiero è la vita e la vita per essere illuminata si rivolge al pensiero. Il pensiero non è una dottrina ma il modo cosciente in cui la vita umana si manifesta a se stessa. Ecco perché il pensiero è nella sua realtà il pensare e la domanda “cosa significa pensare” non è peregrina, anche se quando ce la poniamo abbiamo già iniziato a pensare.
La storia della filosofia potrebbe essere vista come la diversa dislocazione del pensiero o dell’atto del pensare. Hegel sostiene che per la filosofia greca il pensiero è “accidentale”. Intende dire che tra la cosa (certezza) e l’idea (verità) il pensiero svolge solo un ruolo di collegamento tra il mondo sensibile del divenire e il mondo ideale dell’essere. Le cose sensibili che si riversano nel pensiero giungono a rivedersi nelle forme ideali che sono la loro stessa vera realtà. Il pensiero – come si può quasi vedere – è un tramite, un collegamento, come se fosse un ascensore che conduce la certezza alla verità. La filosofia greca dava per scontato o naturale che l’idea fosse la verità della cosa e il pensiero pur essendo “centrale” – come l’anima del Ficino – era solo un collegamento e, quindi, come osservava Hegel, aveva un ruolo “accidentale”. Con la filosofia moderna le cose cambiano.
Nella filosofia moderna, che si avvia con Cartesio e l’atto del cogito, il rapporto tra la certezza e la verità non è dato più per scontato. Il pensiero è certo di pensare la cosa ma non sa se l’idea che ne ha sia la verità della cosa o solo una sua rappresentazione. Com’è la cosa al di là della rappresentazione? E’ la domanda che tormenta tutto il pensiero moderno da Cartesio a Kant, ma anche oltre e perfino i contemporanei. Il problema della relazione tra le idee (rappresentazioni) e la realtà – problema comune tanto al razionalismo quanto all’empirismo – trova la sua forma più compiuta con Kant e la “cosa in sé”. Rispetto alla filosofia greca, il pensiero non collega più certezza e verità ma, al contrario, oppone certezza e verità e sembra – ma, appunto, è solo un’apparenza – non svolgere più un ruolo “centrale”. Invece, è proprio nella filosofia moderna che il pensiero – che non è più concepito accidentalmente come collegamento: l’ascensore – diventa centrale perché ri-conosce la sua funzione come l’atto che ri-vela la verità. E’ come se per conoscere il pensiero non si rivolgesse più ad altro (Idea) ma a se stesso diventando così consapevole di sé.
Quando il rapporto tra intuizione e concetto – certezza e verità – non sarà più giocato esclusivamente nelle scienze naturali ma sarà ri-conosciuto come naturale o indigeno nel campo dal quale effettivamente nasce, ossia il mondo umano e storico, allora cadrà, come cade un frutto troppo maturo o, per dirla con Nietzsche, come cadono i denti da latte, anche l’assurdo concetto della “cosa in sé” e il pensiero avendo in sé tutta la realtà – l’essere e il niente – potrà svolgere il ruolo che gli compete mediando l’opposizione tra certezza e verità. Togliendola e conservandola su di un piano più alto, come avrebbe detto il genio di Hegel.
Pensare è fatica da facchino. Non si pensa una volta per sempre ma sempre per una volta. L’idea che si possano mettere tutte le cose a posto per poi vivere bellamente non è neanche un sogno ma una vacuità. La vita umana senza pensiero non è vita umana. E l’uomo che vuol vivere senza pensiero e senza pensieri è la caricatura di un uomo, come nella farsa del Bientina che reca fin dal titolo la pretesa assurda: Farsa dell’uomo che si vuol quietare e vivere senza pensieri. Ciò che dà da pensare all’uomo è la sua stessa condizione che per essere vissuta umanamente chiede luce: la vita si innalza al pensiero e il pensiero si immerge nella vita. Pensare la vita significa com-prenderla e ri-schiararla per condurla e il pensiero in quanto “produttore” di concetti – empirici, astratti e puri – svolge questa funzione in cui l’azione passata è capita e l’azione futura è preparata.
Il pensiero che rischiara e prepara non è in un mondo sopra il mondo o in un cervello sopra il cervello ma in questo mondo e in questo cervello – un mondo a volte cervellotico – ed è parte integrante della vita che si presenta proprio come un continuo circolo di pensiero e azione. Il pensiero stesso, pur conservandosi nella sua natura teoretica, è azione: atto.
L’atto del pensare è il superamento dell’opposizione o lo scioglimento del nodo che il pensiero ha in sé come suo modo d’essere. La lotta, che contraddistingue la vita umana dal principio alla fine, contrassegna anche il pensiero che non sfugge di certo alla regola e, anzi, la scopre e invera. L’opposto che il pensiero si porta dentro come sua vita e sua morte, il suo interno ed acerrimo nemico e al contempo suo alleato, è il falso, l’errore, la contraddizione. L’atto pensante deve pensare proprio il suo opposto per negarlo, eliminarlo, toglierlo di mezzo per far emergere così la verità della cosa.
Il falso è l’essere stesso che chiede di essere distinto, determinato nel suo essere, identificato. L’identità si ha solo nella distinzione, nella diversità. Pensare significa distinguere e distinguere significa giudicare: il giudizio unisce e distingue. Unisce il soggetto e il predicato e unendoli li distingue, come distingue il predicato – quell’essere determinato, individuato e illuminato – dagli altri predicati o esseri possibili. Ecco perché l’atto pensante pur essendo attività – lotta – è teoretico e non pratico e il suo rigore è dato proprio dall’essere che è determinato sollevandone il velo che lo cela e ri-vela. Più il pensiero è rigoroso, più l’essere apparirà nitido, più l’azione potrà essere condotta con pratica efficacia.
La verità ri-velata dal giudizio non rispecchia più – come avveniva nella filosofia greca e in gran parte della filosofia moderna – un essere ulteriore (l’Idea) ma individua lo stesso essere mondano, naturale e storico, a cui da sempre mira come sua origine e sua fine. L’essere ideale è il pensiero stesso nel suo atto distinguente che qualifica il negativo – il non-essere -, scioglie il nodo della contraddizione, dissolve la confusione e lascia essere l’essere.
Nella tradizione spaventiana e gentiliana il pensiero è il “grande prevaricatore” che tiene in piedi tutta la baracca dell’essere e del divenire. Che il pensiero possa prevaricare, come può accadere ad ogni altra forma o distinto, è scontato. Quando il pensiero prevarica non abbiamo, come ritiene Gentile, l’autocreazione o autoctisi, ma l’intellettualismo, il filosofismo e quella concezione del mondo che vede uscire il mondo dalla testa di Zeus. Il pensiero nel rigore del suo atto conoscitivo non è prevaricatore ma mediatore: il vero demone mediatore della tradizione filosofica. Socrate e Platone individuano in Eros il mediatore per eccellenza. Il pensiero esprime di per sé qualcosa di erotico: davvero filosofia e pensiero sono l’una il rovescio dell’altro. Il senso della stessa parola “filosofia” come “amore per il sapere” si ritrova tutto nell’atto del pensare che è a tutti gli effetti un atto amoroso: il pensiero abbraccia la vita – sillogizza – e con essa lotta, proprio come l’amore che è abbraccio e lotta, pace e guerra. Il pensiero è pieno di vita, fecondo. Il pensiero ha esperienza del mondo e la sua capacità mediatrice nasce proprio dall’esperienza che ha delle cose esistenti e inesistenti. Il pensiero penetra l’altro e lo possiede ma, senza avere la presunzione fatale di possederlo per sempre, lo lascia andare, fecondo com’è ormai di vita e pensiero.