di Amerigo Ciervo
Non è – a sentire i discorsi del vecchio bar Sport o, da qualche anno, quanto si legge nei vari network – solo una partita di calcio, quella che, almeno due volte all’anno, si disputa tra il Napoli e la Juve. Di sicuro non lo è per noi, tifosi del Napoli, che siamo più “bambini” e, forse, più trasparenti. Loro, più scafati, come scafato è chi “sa” di avere il potere, fingono. E quando le beccano – come è successo a Doha – parte immediatamente la velina che arriva, come un’enciclica, in ogni parte d’Italia, dove, insieme a una parrocchia, una stazione dei carabinieri e, una volta, una sezione del pci, si ritrova un nucleo bianconero: ma davvero pensate che tenevamo alla coppetta che avete vinto? In verità, l’invereconda esultanza, in tribuna, del trio “Simpatia”, prima dell’ultimo, decisivo rigore, faceva pensare al contrario…
Il tifo, in realtà, è un “gioco” molto serio ed è uno “spazio” che rappresenta simbolicamente il luogo dove è possibile scaricare le pulsioni più violente. Un po’ come pensa l’antropologo inglese Desmond Morris: gli esseri umani nel lungo processo evolutivo, si sarebbero trasformati da ‘cacciatori’ a ‘calciatori’, arrivando, cum jujcio, a “lotte” sempre meno sanguinarie. Così il rito del calcio finisce per sostituire altri scontri, altri spettacoli di natura più intensamente drammatica. Non muta, tuttavia, il significato di caccia rituale, in cui l’arma è la palla e la preda è la porta. Le curve non sono un branco disorganizzato, ma si muovono e agiscono come un gruppo ben strutturato, comunicando simbolicamente con le loro magliette, gli striscioni e le bandiere. I cori hanno la funzione di catarsi collettiva, un canto che spazza via tutte le cure e le tensioni settimanali. I tifosi sono soggetti stessi del rito e non puramente osservatori, in tal modo riuscendo a dare corpo alle loro frustrazioni, sfuggendo alla noia del quotidiano e vivendo, per qualche ora, in un tempo mitico o, se volete, metastorico. Insomma, una sorta di Carnevale settimanale. Se questo è vero, allora Napoli-Juventus non è solo un incontro di calcio.
Del resto, perché si sceglie una squadra? Chi è lo juventino? E chi è il napoletano? Chiedo aiuto a Fichte per spiegare, cosa nasconde, secondo me, l’arcano della scelta di una squadra. “La scelta di una filosofia (cioè, di una squadra) dipende da quel che si è come uomo, perché un sistema filosofico (la squadra) non è un’inerte suppellettile, che si può lasciare o prendere a piacere, ma è animato dallo spirito che un uomo ha. Un carattere fiacco di natura o infiacchito e piegato dalle frivolezze, dal lusso raffinato e dalla servitù spirituale, non potrà mai elevarsi all’idealismo (per me: al Napoli). Si può mostrare al dogmatico (lo juventino) l’insufficienza e l’inconseguenza del suo sistema, secondo quanto tra poco diremo, lo si può tormentare e confondere in ogni senso, ma non lo si può convincere, perché egli non sa ascoltare e saggiare, pacatamente e freddamente, una dottrina che non può assolutamente tollerare. Per esser filosofi – posto che l’idealismo si confermi come l’unica vera filosofia – bisogna esser nati tali, essere stati educati tali, e tali educarsi: non c’è arte umana che valga a far diventar filosofo. ”Quindi si sceglie la propria squadra per quello che si è. E se il dogma è: vincere, un’affermazione talmente dogmatica da scriversela anche sulla maglietta, al pari di una rivelazione religiosa e fideistica, ogni comportamento, ogni pensiero, ogni azione concreta saranno diretti verso quella verità. Sicché, per esempio, si nega, convinti – insieme ai catecumeni in nero o in giallo che, quasi ogni domenica, danno vita al rituale dell’offertorio – come è successo domenica scorsa con Buffon e Tagliavento nell’episodio con Koulibaly, il principio leibniziano della “impenetrabilità dei corpi”. Del resto dogma e potere sono intimamente legati e, a sentire Mario Sconcerti, unico giornalista che si mantiene fuori da quel postribolo d’alto bordo che è diventata la redazione di Sky, dove si spaccia il meretricio per analisi tecnica, “la Juve è squadra molto potente”.
Noi, viceversa, non abbiamo dogmi. Comprendiamo il valore del dubbio e della ragione che si fanno sentimento e nell’amore per il Napoli, quasi sempre perdente, cogliamo la rappresentazione della caducità dell’esistenza, insieme alla rappresentazione simbolica (l’uomo è sempre un animale simbolico, scondo Cassirer) della bellezza sfregiata di una città unica, della sua straordinaria scuola musicale, della sua ricca tradizione filosofica, della sua poliedrica creatività artistica. Delle sue canzoni e delle sue tammurriate. Di Totò e di Roberto De Simone. Dei De Filippo e di Viviani. Di Murolo e di Pino Daniele. Il mio Napoli è, idealmente, come il Monitore Napolitano, il giornale di Eleonora Fonseca Pimentel, la gazzetta della rivoluzione del ‘99: per Croce, un documento di elevatezza intellettuale e morale e, anche, d’idealistica ingenuità. Non m’importa davvero di aver perso – nel modo in cui tutti hanno visto – la partita. M’importa, invece, che s’è mostrato al mondo la profonda sostanza etica di una comunità, con quell’incipit da brividi sugli spalti su cui, non pochi, hanno pianto. E a un mio carissimo amico juventino che, conoscendo le mie “novecentesche” idee politiche, mi faceva notare che moltissimi dirigenti di primissimo piano del vecchio pci fossero juventini, ho risposto che questo elemento è un ulteriore problema per la sinistra che – sostiene – di essere finalmente andata al potere…