Sbaglierò, ma a me Pino Daniele non sembrava un napoletano ma un antinapoletano o, se volete, un napoletano a metà. Senza retorica, senza sceneggiata, senza esagerazioni, senza gestualità. Doloroso ma composto. Senza lacrime. Un napoletano senza. A metà.
Anche se ha indossato la maschera di Pulcinella – come il suo amico Troisi – lo ha fatto più per smascherare che per mascherare: c’è il dramma ma non la drammatizzazione. Sotto la maschera è apparsa la maschera del dolore di una vita che è napoletana sì, ma perché è universale. Se così non fosse, Pino Daniele sarebbe rimasto prigioniero della sua lingua che invece con lui si è espressa.
Scrivere a 17/18 anni Terra mia e Napule è non significa scrivere canzoni ma abitare poeticamente. Una volta Fabrizio De André citando Benedetto Croce – un altro napoletano a metà – disse che fino a 15 anni tutti scrivono poesie, poi dopo i 15 anni scrivono poesie solo i poeti e i fessi. Si può fare un’eccezione per l’autore di ‘Na tazzulella ‘e café che restò quindicenne almeno fino ai trent’anni. I primi versi del giovanissimo Pino Daniele sono impastati nella lingua napoletana e più esprimono l’anima napoletana – come si dice con frase fatta – e più sono nuovi, freschi, vitali. Non ripetitivi. Lì la poesia o la freschezza linguistica sopravanza la tecnica artistica. Lo stile è tutto nel verso e nella musica che non accompagna ma nasce a un parto con l’espressione.
Il percorso del musicista napoletano a metà va dalla lirica alla canzone. Di solito avviene il contrario o – diciamo meglio – ci si sforza di fare l’inverso. In lui, invece, l’ispirazione – parola equivoca ma necessaria – è predominante e dà il meglio di sé quando la perizia tecnica non reprime la spontaneità. Il primo Pino Daniele appartiene alla storia della canzone napoletana o della tradizione poetica; il secondo Pino Daniele riguarda la storia della musica leggera italiana. La differenza non va spiegata.
Passato il momento della commozione per la morte prematura, si vedrà nel lavoro musicale di Pino Daniele ciò che effettivamente è stato: il più grande e riuscito sforzo di innovazione della tradizione musicale partenopea che si aprì al mondo. Ma ci si inganna se si pensa che basti mettere insieme rock, blues, jazz e una buona band per avere Nero a metà. La buona creatività, anche se ha le sue strade e le sue fatiche, è e resterà sempre un che di non chiarito fino in fondo, di non riproducibile. I testi di Daniele hanno in sé sprazzi di luce che brillano di luce propria. Hanno un che di lirico, perché sono il frutto di una sofferenza, di un patimento e saglie ‘a voglia d’alluccà. Prendete Quanno chiove: è un testo – musica e parole – fatto di immagini espresse da un’individualità. Pino Daniele è stato più innovativo e riuscito di Massimo Troisi. Lo si voglia o no.