La scelta di Brittany fa discutere l’America ma risuona, inevitabilmente, anche nella coscienza di ognuno di noi. La ragazza americana malata di cancro al cervello che ha scelto di porre fine alla vita ci pone davanti con la forza estrema della sua decisione una domanda alla quale, forse, non vogliamo rispondere: “E’ giusto o no in casi estremi togliersi la vita?”.
Monsignor Carrasco, presidente della Pontificia accademia per la vita, pur non giudicando la coscienza della ragazza americana – solo Dio giudica le coscienze – ha condannato la scelta perché praticare l’eutanasia – la “buona morte” – non è dignitoso. Eppure, Brittany, che combatteva con un aggressivo cancro al cervello, ha giustificato la scelta proprio con la motivazione opposta: per morire in modo dignitoso. Tra la scelta della ragazza americana e il giudizio di monsignor Carrasco non c’è nessuna possibilità di mediazione e non c’è nessun arbitrato o giudizio “terzo” in grado di trovare una soluzione. Sono due scelte diverse e opposte. Entrambe legittime. Almeno fino a quando l’una non impedisce l’altra. Nessuno, infatti, può avere il monopolio della vita e della morte. La domanda “Come devo vivere?” ha molteplici risposte, anche opposte tra loro, e sono tutte legittime fino a quando non sono violente su terzi. Anche la domanda “Come devo morire?” ha molteplici risposte tra loro opposte ma altrettanto legittime. Credere di avere in tasca la risposta che va bene a tutti non solo è presuntuoso e impossibile, ma anche intimamente incoerente perché non concepibile.
La posizione del Vaticano, però – perché credo che alla fine si tratti di questo -, è proprio quella di chi ritiene di poter e dover esercitare un monopolio sulla morte o sul “fine vita”. I casi di eutanasia, soprattutto quelli che suscitano emozioni collettive e interesse dei mezzi di comunicazione di massa, di per sé mostrano che nessuno, neanche la Chiesa, ha il monopolio della morte. Mentre dal canto suo la Chiesa con i suoi interventi, con i giudizi e le condanne morali vuole esercitare proprio una sorta di “monopolio spirituale” sulla morte e sul dolore. Ma non c’è solo la Chiesa.
I casi di “fine vita”, soprattutto e principalmente quelli in cui il malato non è più in grado di scegliere, sono ricondotti alla legge e quindi ai giudici. Sempre più spesso – e questo accade in modo particolare in Italia e i casi esemplari non mancano – si fa ricorso ai giudici affinché decidano secondo legge. La magistratura sembra diventata una sorta di nuova casta sacerdotale, come se ciò che dice la legge fosse sacro, giusto e indiscutibile. Ma così non è. Soprattutto nei casi estremi dove in gioco ci sono la vita, la morte, il dolore. Il ricorso ai giudici – a un giudizio “terzo” – è il tentativo di sgravarsi di un peso e di adeguarsi a una decisione che si ritiene giusta per legge. Ma in questi casi non ci sono decisioni giuste per legge. Ciò che invece deve fare la legge è garantire due cose: la libertà di scelta del malato quando il malato è cosciente e consapevole; e conservare una “zona grigia” in cui, quando il malato non è più in grado di scegliere per sé, possano scegliere i suoi cari e i medici senza le ingerenze di altri soggetti, che possono essere i più svariati: Chiesa, Stato, opinione pubblica.
Di fronte alla sofferenza e alla morte e alle vite estreme non c’è sapere che tenga: né laico né religioso, né scientifico né giuridico. Non c’è un sapere di alcun tipo che valga per tutti. E non c’è modo di sottrarsi alla scelta e alle responsabilità. Anche la non-scelta è scelta. La “zona grigia” fa risaltare proprio l’inevitabilità della morte e della scelta che non può essere demandata ad altri, tantomeno a una legge fredda più brutta della stessa morte. In Italia l’eutanasia è un tabù ma dovremmo tutti imparare a discuterne in modo più laico, pietoso e rispettoso.
Però, degli argomenti del monsignor Carrasco bisogna, credo, considerarne più di uno. Vanno senz’altro discussi e approfonditi. Intanto, la posizione del Vaticano è in linea con la cultura dell’Occidente che è la cultura della vita anche quando questo significa accettazione della sofferenza. La vita non è nostra. Proprio per questo la tuteliamo. Tuttavia, l’accanimento terapeutico si rovescia nel suo contrario: un padronanza eccessiva sulla vita che è ridotta solo alla sua qualità biologica. Ritornano le parole di Giovanni Paolo II: “Lasciatemi andare”.
Ma c’è nelle parole del monsignore anche un aspetto più pragmatico che vale la pena evidenziare. Dice: “La coscienza è come un santuario in cui non si può entrare. Ma riflettiamo sul fatto che se un giorno si portasse a termine il progetto per cui tutti i malati si tolgono la vita, questi sarebbero abbandonati completamente: il pericolo è incombente perché la società non vuole pagare i costi della malattia e questa rischia di divenire la soluzione”. La soluzione della malattia non deve mai diventare sul piano sociale la sua fine anticipata. Per limitare i costi si punta sulla prevenzione ma l’abbassamento dei costi può venire anche dall’anticipazione. La nostra cultura della vita può trasformarsi in una cultura della morte. La “soluzione”, invece, è la cura nella quale sono coinvolti non solo i medici ma i tanti affetti che circondano, spesso, le vite dei malati terminali. A volte, però, accade che il malato sia solo. Non può essere abbandonato, qualunque sia il costo.