“Ben detto”, disse Candido, “ma bisogna coltivare il nostro giardino”. Perché? E’ l’unico modo che rende sopportabile la vita. Perché la vita, dopo tutte le filosofie, le religioni e le “magnifiche sorti e progressive” è una cosa che si sopporta. Certo che di mali al mondo ce n’è tanti, compreso il dibattito sull’articolo 18 e la Leopolda – della quale il Landini ha detto l’immortale “basta con la Leopolda e cazzate varie” – ma provate a contare quanti scocciatori ci sono in giro e poi venite a dirmi se un giorno senza incontrarne uno non è un buon giorno. Dovete esser contenti se nell’arco di ventiquattro ore nessuno vi secca e siete liberi come Orazio di meditare non so più su quali sciocchezze. A volte contentarsi di piccole cose rende la giornata più piacevole e la vita si lascia portare con più leggerezza. Ma poi perché il faut cultiver notre jardin? Perché bisogna coltivare il nostro giardino?
Sembra una morale un po’ piccina e quel giardino somiglia troppo al nostro piccolo orticello che ci distoglie dalla vita civile e politica e ci condanna all’egoismo e all’autoesclusione. Tuttavia, il giardino di Voltaire vien dopo la grande armonia prestabilita, le indagini teologiche e la teodicea che assegna un posto a ogni male e sa che dopo la razionalizzazione del reale resta pur sempre da vivere e per vivere è necessario lavorare. La coltivazione del giardino è la serietà della vita che non si perde in chiacchiere e opera perché solo nel tempo dell’opera trova il modo di dare senso alla vita impietosa.
Quel giardino non sembra essere quello di Epicuro in cui il bene è l’assenza del male, ma una moderna azienda agricola in cui i frutti sono il frutto del lavoro da cui dipende la conquista della libertà che supera il male e redime l’esistenza. Il troppo ragionare non risolve uno solo degli innumerevoli problemi della vita e non contribuisce neanche a meglio sopportarla. La sola Regola sembra superiore a tutte le filosofie ed è certamente migliore delle dottrine del professore che insegna alla grande università tedesca (quelle italiane non son prese in considerazione): ora et labora. E se la preghiera non ricade più nelle abitudini dell’uomo moderno, il lavoro, qualunque esso sia, è ancora una cura necessaria per l’anima e il corpo. Il lavoro che coltiva il nostro giardino che è la vita è il vero “eterno ritorno” che anche Nietzsche, hegeliano immaginario come lo definiva con sagacia Croce, con tutta la sua sacrosanta aristocrazia e il disprezzo per la birra tedesca e gli studenti cialtroni accetterebbe se tornasse a fare il Callicle moderno.
Ritorna spesso un sogno sia negli uomini di pensiero sia negli uomini d’azione o d’impresa, come si usa dire oggi: il sogno che si possa mettere un punto un po’ a tutti i problemi della vita e del mondo o, almeno, a quelli che riguardano la cerchia del pensiero e a quelli che s’incontrano nel cosiddetto “mondo del lavoro”, in modo tale che poi fatta “piazza pulita” – come dice con irraggiungibile civile eleganza il Formigli – si possa vivere bene e meglio e per sempre a proprio agio. E’ un sogno, appunto; e i sogni muoiono all’alba – come diceva Montanelli che vi scrisse su un testo teatrale e ne fece un film – ma il sogno dell’età dell’oro ritorna ciclicamente tanto che lo stesso giardino dell’Eden, dal quale l’uomo fu cacciato per andar a guadagnarsi la vita con il lavoro, è un sogno sognato per sottrarsi allo sforzo di sopportare la vita.
Ma lavorare poi, perché? Per arricchirsi, per ingrandirsi, per star sicuri, per diventar potenti? Basta un niente e la potenza umana è eco di tromba che si perde a valle, come diceva Carducci. Lavorare per vivere e non aver alcuna meta. Non c’è da raggiungere alcuna meta che non sia un inizio: e sempre corsi, e mai non giunsi il fine dice ancor il buon Giosuè Traversando la Maremma toscana, mentre uno dei Fratelli Canottiera – così detti perché erano sempre in canottiera anche d’inverno -, quello più nerboruto e irsuto, diceva alla buona: “Ma tove volete antare voi Italiani; la Cermania è un’altra cosa” che è un modo colorito per dire che la “macchina tedesca” è una macchina da guerra e per quanto abbia perso la bellezza di due guerre mondiali è sempre il cuore pulsante dell’Europa e il Lavoratore tedesco non solo è una figura hegeliana nata dalla potenza degli Junker e dalla fantasia di Junger ma è la forza dei germani che hanno sempre imposto se stessi con il lavoro.
Germania a parte, il lavoro esprime la necessità e la libertà della vita. Non c’è fine che non sia la vita stessa, che non sia il lavoro medesimo. Il che significa che credere che il lavoro abbia un fine è volere la fine della vita. Non si può escludere arrivi un giorno in cui si desideri la fine della vita, ma sarà solo l’uscita di scena di un uomo ormai stanco anche nelle membra – se gli sarà andata bene – per continuare a desiderare di ripetere all’infinito il giro della prigione della sua singola esistenza. Il lavoro non ha un fine ché la vita è senza riposo. Non è solo una legge dell’umano vivere ma anche delle cose superiori e inferiori: persino Dio per essere se stesso ha bisogno del diavolo e la lotta è senza fine e Lui stesso è indiavolato, mentre il giorno in cui dovesse vincere definitivamente sul suo eterno nemico che si porta in grembo quel giorno sarebbe anche il suo ultimo giorno e nel compimento dei tempi si farebbe avanti la “pace eterna”, che è la noia infinita dalla quale già qui rifuggiamo sopportando, a volte bene a volte male, la vita.