di Antonio Medici
Una trasmissione televisiva molto seguita ha lanciato l’allarme pizza napoletana: conterrebbe sostanze cancerogene. Alla tremenda conclusione, passibile di gettare in allarme gli addicted di questo celebre e popolare elaborato gastronomico che resiste ad ogni moda e passa indenne attraverso i secoli, si è giunti attraverso un percorso sillogistico di stampo burocratico fiscale, ergo affatto scientifico. Il professorone, in verità, è stato interpellato, ma per confermare banalità: le sostanze combuste sono potenzialmente cancerogene. L’uomo, nel suo percorso evolutivo, ci è arrivato prima delle ricerche e del professorone, distinguendo le sostanze tossiche con sensazioni di sgradevolezza. Non a caso l’amaro del bruciato ci è sgradito contrariamente, per esempio, all’amaro della marasca, della mandorla o del luppolo.
Ad ogni modo, la tesi tanto propagandata dagli autori della inchiesta (?) è la seguente: la pizza a Napoli è spesso bruciata nella parte inferiore o lungo i bordi, le bruciature contengono sostanze cancerogene, la pizza a Napoli è cancerogena.
Bastasse un sillogismo per accertare le cause delle malattie mortali o le conseguenze del consumo di alcuni alimenti, ci cureremmo con i paradossi. L’umanità sarebbe sana e si morirebbe solo di vecchiaia o di stenti.
Il virus della comunicazione stile social network ha infettato il mondo dell’informazione, orientandolo verso due stelle polari: sinteticità e la necessità di ottenere click (per fare audience e quindi vendere pubblicità). Il mix è fatale e produce titoli scandalistici e superficialità.
Ovviamente lo scandalismo opera anche su tutti i fronti e così, dopo la trasmissione, sono fioriti articoli e servizi sui taumaturgici poteri anticancro della pizza napoletana.
L’unico dato certo, tuttavia, è che non esiste uno studio epidemiologico sulla pizza. Le affermazioni lette in questi giorni sulla pericolosità o miracolosità della pizza, dunque, sono soavi chiacchiere da bar sport ed hanno un valore paragonabile a quello di affermazioni del tipo: “la carne fa male”, “se Mertens lo avesse fatto entrare prima… ”, “la carota fa bene alla vista”. Quale carne, in che quantità ed a chi faccia male non è dato sapere, come del resto non è noto quanti campi di carote dovremmo ingerire per poter fare a meno degli occhiali né, infine, sapremo mai se Mertens, schierato in campo in quel tal minuto, avesse potuto mutare il corso della partita.
A ben vedere la verità è che il patrimonio di cultura gastronomica, al pari della terra, delle risorse naturali e paesaggistiche, delle immense ricchezze archeologiche e storico architettoniche, subiscono la nostra pervasiva azione cancerogena e distruttiva. Siamo il nostro stesso cancro.
La pizza, per tornare all’argomento della settimana, è uccisa dalle associazioni di tutela che, perdendo ogni credibilità, chiudono un occhio e anche due sul rispetto dei disciplinari, dalle pizzerie che usano pasta lievitata conservata o surgelata, farine inadeguate, lieviti impropri, pomodori extraterrestri, oli di ricino e pezzi di plastica per mozzarella. La pizza è anche uccisa da quei commensali che giudicano in base al prezzo, che non sanno distinguere il buono dal cattivo né apprezzare lo sforzo di quei tanti, per fortuna sono ancora tanti, pizzaioli che si impegnano per portare a tavola il meglio, resistendo alla guerra dei prezzi.
Il patrimonio gastronomico campano, ed italiano in generale, è troppo spesso usurpato e deturpato anche perché non esiste un’educazione obbligatoria, e dunque scolastica, al gusto. Consumatori consapevoli decreterebbero in breve tempo la chiusura delle pizzerie e delle osterie di quart’ordine e non lascerebbero campo libero alla bufala della pizza cancerogena o anticancro, a seconda delle opposte fazioni.
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