di Giancristiano Desiderio
Le riforme della scuola non migliorano ma peggiorano la scuola. Non è un’opinione. E’ un fatto. Matteo Renzi ha pensato bene di fare subito una riforma nominale e ha introdotto il “patto educativo” quando ha capito che la stessa vecchia formula della “riforma scolastica” sarebbe stata un boomerang per il governo. Nella sostanza non cambia nulla perché i provvedimenti che il governo Renzi vuole assumere non mutano. Si tratta di provvedimenti che non fanno né una riforma né un patto: la prima, per essere una riforma, dovrebbe essere un intervento serio e tecnicamente preciso ossia dovrebbe metter mano agli esami perché riformare la scuola significa solo e soltanto riformare gli esami; il secondo, il patto, non si sa cosa sia. L’unica cosa che al momento si sa è che con la scusa di superare il metodo delle supplenze si assumeranno per l’anno scolastico 2015 ben 150mila docenti. Si tratta di una misura degna dei ministri democristiani delle Poste di una volta che infornavano postini su postini e posti su posti. Così la scuola italiana, che è già la più pesante e sovietica al mondo, si arricchirà di altri 150mila professori che – vedrete – non risolveranno il problema delle supplenze che sarà semplicemente spostato di un gradino.
Sulla scuola Renzi sta dando il peggio di sé. Le novità che si cerca di introdurre sono soltanto una rimasticatura di alcuni provvedimenti di Valentina Aprea, sottosegretario all’Istruzione nel governo Berlusconi. Tra le novità che si vogliono introdurre c’è la ridefinizione dello stato giuridico del docente e la valutazione dei professori secondo i loro meriti. Si tratta di novità che prese in sé sono anche condivisibili; sennonché la loro attuazione prevede, lo si voglia o no, un cambiamento giuridico-istituzionale della scuola italiana che dovrebbe rinunciare al monopolio statale e al suo fondamento: il valore legale del diploma. L’idea di valutare i professori e le professoresse – la scuola italiana è fatta quasi tutta da donne – restando all’interno del sistema monopolistico è una contraddizione in termini che equivale solo ad un rimescolamento delle carte e nulla più. A valutare i professori sarà chiamato molto probabilmente il dirigente scolastico – preside – e lo farà sulla base di criteri che applicheranno i vari ordini ministeriali: chi svolge compiti di coordinatore, chi frequenta corsi di formazione, chi partecipa all’esame di maturità. Sulla base di questi criteri burocratici e legalistici si stileranno molto probabilmente delle fasce di professori A, B e C con diverse retribuzioni. Naturalmente, le famiglie sapranno se i professori dei loro figli sono di serie A, B o C con tutto ciò che ne segue.
Valutare è sempre difficile, ma in Italia ci si sta avviando verso una parodia del sistema valutativo. Appare evidente, infatti, che per avere valutazione e risultati manca il requisito essenziale: la libertà di scegliere i professori migliori sulla base dell’autorevolezza e dell’insegnamento. Senza questo requisito essenziale – che, si badi, è intrinseco alla cultura e alla formazione – si avrà solo un rimescolamento delle carte, una graduatoria dei professori incattiviti e senza alcuna vera possibilità di sceglierli e cambiarli da parte della scuola.
L’Italia è un paese strano. La sua scuola è ancora più strana. Tutti la vogliono cambiare, riformare e migliorare ma tutti la vogliono cambiare, riformare e migliorare restando all’interno dei confini statali del sistema scolastico che si ritiene immodificabile come una legge di natura. Le varie proposte di modifica hanno solo questo di buono: mostrano che il sistema monopolistico non regge più, è giunto da tempo al suo limite sia per quantità sia per qualità. L’idea di introdurre la valutazione dei professori fa toccare con mano questa realtà: per iniziare a migliorare la scuola è necessario uscire dal modello della scuola di Stato e passare al modello della “scuola libera” in cui la scuola statale potrà recuperare dignità e svolgere il suo compito principale – garantire il diritto allo studio – invece di essere un distributore di posti di lavoro sul modello democristiano delle Poste e dei postini.