di Giancristiano Desiderio
La morte felice, esiste? Sappiamo che esiste la bella morte. Ne parlava Carlo Mazzantini in un libro intitolato proprio così: A cercar la bella morte. E’ la morte di chi non ha più nulla da perdere e resta fedele ai suoi ideali fino a morirne. La bella morte è eroica e ricopre di gloria chi la cerca. Chi muore non muore: i morti gloriosi sono i “mai morti”. Ma questa morte è felice? E’ strana l’espressione “morte felice”, non serve neanche dirlo: mette insieme due cose – la fine della vita e uno stato d’animo – che sembrano tra loro diversi e opposti. La felicità, se è qualcosa, è legata alla vita, mentre la morte finendo la vita si presenta infelice. E’ quel niente che è la morte che ci procura angoscia e nausea o un senso di infelicità latente che nasce dal senso della fine dei giorni e dal saluto estremo alla nostra bella “famiglia d’erbe e d’animali”. Ciò che mi disturba della morte è l’addio ai miei cari. E’ il non vedersi più. “Vorrei vederti tra cent’anni” canta Ron ma in quel “vorrei vederti tra cent’anni” c’è proprio il patimento del non potersi vedere più. Ma non è detto che per tutti sia così. Magari c’è chi nella morte trova consolazione proprio perché non vede più un bel po’ di gente, a cominciare dai suoi cari, e l’idea di ritrovarseli da qualche parte gli genera ancora più angoscia. E’ quest’ultima sarebbe un’altra infelicità della morte.
Anche per i credenti, per coloro che credono nell’Aldilà, al Paradiso – che alla lettera significa essere presso gli dèi -, la morte non si presenta felice. Anzi, proprio i credenti, con i loro egoistici atti propiziatori per ingraziarsi la benevolenza di Dio, sembra che abbiano maggiormente paura dell’ “ora della nostra morte”. La morte felice è un’assurdità, la morte infelice è il corso delle cose. Eppure, la morte felice ha qualcosa di attraente, non solo perché ognuno “dopotutto” vorrebbe fare una bella morte e andar via senza sofferenza, ma anche perché se c’è una vita felice ci potrà pur essere una morte felice.
Mi sono imbattuto nell’espressione “morte felice” leggendo La pelle di Malaparte, un romanzo carico, stracarico allo stesso tempo di vita e di morte che, in fondo e in superficie, sono sempre intrecciate e abbracciate con la nostra pelle. Lì di morte, in quella Napoli in guerra e in amore, di morte ce n’è tanta. I cadaveri sono ammucchiati gli uni sugli altri fino a far piramidi. Ma c’è anche vita, vita che freme, vita che vende se stessa per vivere e scacciare miseria e paura. Malaparte vede nella prostituzione, dei corpi e delle anime, qualcosa di più infelice della morte, qualcosa di infernale in cui a morire è la dignità. Forse, per questo la morte è detta felice. Non è vero, recita il detto popolare, che sia la morte il peggior di tutti i mali. La morte può liberare dai mali, che siano fisici o morali. Il pensiero occidentale fin dal suo apparire ha fatto l’amore con la morte e l’ha presentata come una liberazione dal carcere che è la vita. Ma la cosa non va presa troppo sul serio o, almeno, va chiarita perché non si vuole celebrare la morte ma la vita. E dunque non morire ma vivere. La platonica morte dei sensi è solo una metafora o il pegno che si paga a un pensiero ancora troppo intellettualistico.
Liberarsi dal carcere che è la vita significa liberarsi – quindi far morire – i vizi e gli errori. La morte di cui parla Socrate è sì la fine della vita, ma anche la fine dei falsi discorsi e delle finte virtù. E’ la morte del sofista che è in ognuno di noi. La morte del sofista è l’avvio della vita vera che non arriva mai alla pienezza di sé perché se vi giungesse non sarebbe più vita ma morte. La vita vera, piuttosto, è in perenne lotta o tensione con la vita falsa, proprio come la vita è in continua guerra con la morte. Allora, la morte felice è la vittoria temporanea su noi stessi, sui nostri errori, sulle nostre falsità e illusioni, sulle nostre debolezze che altri – severi con gli altri e indulgenti con se stessi – chiamano peccati e vizi. “L’inferno, sono gli altri” diceva Sartre e aveva ragione. Perché gli altri con i loro giudizi e convinzioni e convenzioni e incomprensioni ci dannano, ci angustiano, ci perseguitano. Ma se è vero che l’inferno è negli altri, sarà anche vero che gli altri sono il paradiso perché quelle falsità e incomprensioni, quei giudizi di comodo o conformisti siamo chiamati a schiarirli per vivere insieme in una vita che non sarà paradisiaca – presso gli deì – ma avrà la sua dignità umana, con i suoi momenti infernali e paradisiaci, una vita umana degna di essere vissuta. La morte, quella della nostra ultima ora, verrà a liberarci da questa vita che non possediamo nella sua universalità e che alla lunga, andando oltre le terrestri possibilità umane, è davvero un carcere. Ripetere all’infinito la nostra vita, non vi sembra questa la vera condanna? Che sia non la mortalità, ma l’immortalità un male mi pare ormai un’evidenza.
Tuttavia, cercare nella morte il senso della vita significa coltivare un senso macabro della vita stessa e da qui rifuggo. Restate fedeli alla terra e fate l’amore con la vita, non con la morte. La morte, piuttosto, è la comprensione della vita che diventa cenere per vivere. Ogni uomo è un’araba fenice che rinasce dalla cenere e dalla polvere. Per vivere bisogna morire almeno due volte. L’accettazione della condizione umana è l’umanità stessa. La morte felice.