di Giancristiano Desiderio
Una volta Sant’Alfonso, che ancora non era stato fatto santo ma già lo era, si affacciò al finestrone della basilica di Pagani e disse: “La vita è un’affacciata di finestra”. A uno che dice una cosa di queste che cazzo gli volete dire? Ve lo dovete solo baciare, caricare sulle spalle e portare a casa. La frase, con tutta la finestra, mi è salita dal cuore alla testa quando ho visto in paese i manifesti che annunciano la festa di Sant’Alfonso e gli operai che si arrabattano su scale, camion e alberi per sistemare le luminarie. Non l’ho letta in una delle biografie del “molto simpatico santo napoletano”, come diceva Croce con animo commosso, ma nell’ultimo romanzo di Domenico Rea che, a suo modo, con quell’anima aristocratica e popolare che lo possedeva, era santo pure lui. Nelle ultime pagine di quel gran libro che è Ninfa plebea, che ci dà una vita candida e passionale, pura e peccaminosa, quando Miluzza porta in salvo Pietro e Pietro Miluzza, spunta fuori il santo avvocato napolitano con quella frase così carica di vita e di morte, di terra mare e cielo, di stupore e spaesamento: “La vita è un’affacciata di finestra”. Mi piace pensare che Alfonso nostro, con quel cuollo storto, l’abbia detta anche ai santagatesi affacciandosi da una delle tante finestre, finestrelle e finestroni del vescovado o dalle scale dell’altare del duomo dell’Assunta quando diceva di guardare il ninnillo e di fare i buoni che a fare i cattivi siamo capaci tutti.
Ma l’idea anzi l’istinto di buttare giù queste righe mi ha preso quando scorrendo il manifesto con tutte le messe, le prediche, le orazioni e le tribolazioni ho letto anche il nome inimitabile, come se fosse la vita di Gabriele d’Annunzio, del maestro della banda musicale: Secondino Plumitallo di Vitulazio. Anche a questo, amici miei, che cazzo gli volete dire? Uno che si chiama così può fare di tutto perché qualunque cosa faccia sarà sempre ben voluto da tutti. Ma Secondino Plumitallo per non essere secondo a nessuno ha scelto di essere maestro di musica che è uno dei mestieri più belli e terribili perché, come disse Arturo Toscanini, il direttore d’orchestra è un dittatore. Forse per questo Toscanini suonava la banda in guerra e in trincea, sul Monte Santo e sull’Isonzo e volle andare anche a Fiume a dirigere l’orchestra nella speranza che il soldato-poeta vincesse o disarmasse, ma ci volle la musica delle bombe sotto la direzione dell’uomo di Dronero per rinfrescargli la testa pelata ma calda che aveva.
La banda musicale è la quintessenza della festa di paese: non c’è festa se non c’è musica e non c’è musica se non c’è banda. Alfonso era un fior fiore di musicista e un tempo, quando ero ragazzino, la banda musicale si sistemava ai piedi di Alfonso, nella piazza che non porta il suo nome ma quello di Umberto anche se tutti se ne fottono e dicono “’n miezz’ sant’Alfons’” e fanno bene perché la voce del popolo se non è la voce di Dio poco ci manca. Se la musica era bella, il cuollo storto del Santo si raddrizzava un po’, se la musica era uno strazio il cuollo storto diventava ancora più storto. Mentre la banda suonava i signori tromboni del Circolo tiravano fuori le poltroncine e le panzone e si sedevano per non far niente dopo esser stati in piedi senza aver fatto niente lo stesso; gli operai della Società di mutuo soccorso tiravano fuori sedie tavoli carte e panzone pure loro e continuavano a giocare a tressette anche con i tromboni veri dell’Aida. Ogni paese che vuol far festa dovrebbe avere la banda musicale per legge. A Vitulazio, nel casertano, la legge non c’è ma la banda sì: c’è una bella tradizione bandistica e il maestro Plumitallo farà allegriare tutti, maschi e femmine, cornuti e puttane, preti e brava gente, perché la musica è un dono di Dio per tutti, santi e peccatori. Mi affiora alla mente un altro ricordo, questa volta cinematografico e ha a che vedere con Vitulazio. La scena del film Lascia perdere Johnny con Toni Servillo – quell’attore che quando lo si cita bisogna sempre scrivere “il miglior attore italiano vivente” e mi verrebbe da dire che gli altri son tutti morti, vabbe’ – mostra lui, il maestro Domenico Falasco, tutto sfatto, che dà lezioni di vita e di musica al ragazzo Faustino Ciaramella che incantato dalla banda di scarpa sciolta che ha suonato manifesta la sua intenzione di fare il musicista. Allora, il maestro Falasco gli dice più o meno così: “Tu li vedi a questi? Questi sono suonatori di montagna e suonerebbero ovunque. Ma tu no, tu non devi suonare ovunque. Quelli i suonatori sono di montagna, di mare e di campagna. Se ti chiamano per suonare in montagna non ci andare, se ti chiamano per suonare a mare vai, e se ti chiamano per suonare in campagna…”. Il maestro si fermò e il ragazzo curioso insistette: “Se mi chiamano per suonare in campagna?”. “Se ti chiamano per suonare in campagna fa’ un po’ come cazzo ti pare”.
La festa di paese sotto il cielo dell’estate è come una bella mangiata solo che non si mangia soltanto con la bocca ma con tutti e cinque i sensi e anche con qualcuno in più. Una volta, quando c’era il popolo, la festa era più festa; ora c’è la gente e la gente è un popolo sagliuto di capa, si dà delle arie, cioè è un popolo di serie B che crede di essere chissà chi e non è nisciuno, nessuno. La natura della festa di popolo ha qualcosa di Basile: è fantastica e vera allo stesso tempo. C’era un tempo in cui la festa riusciva a rianimare Sant’Agata dei Goti nelle sue pietre e case più popolari, quando le famiglie per il caldo si trasferivano dalla cucina alla strada con tutto: sedie, seggiolelle, divani, poltrone e zizze. La vita straboccava e le strade e i vicoli diventavano più stretti e per passare si finiva gli uni sugli altri. In uno dei vicoli più stretti, uno di quelli che collegano il fuorimuro con via Roma, davanti a me c’era un’auto ferma che cercava di passare e strombazzava. Alla guida c’era un signore di mezza età capitato là o per sbaglio o per castigo, quando due ragazzine vestite come zoccole avanzavano e ridevano e si mostravano e con la loro vitalità intralciavano ancor più il vicolo che sulla sommità faceva vedere la statua del Santo portato in processione e ondeggiante. Il signore suonava per passare e le ragazzine giunte all’altezza del finestrino dell’automobile si fermarono, alzarono le gonne e dissero: “’O zi’, ‘a sapite a chesta?” (Zio, questa la conoscete?). Il pover’uomo davanti alla vista di quelle due fesse rimase come un fesso (e avrei voluto vedere voi!). Anche questa era la festa di Sant’Alfonso.
(Gli articoli si dividono in due categorie: quelli che si scrivono e quelli che si scrivono da soli. Vedete voi questo a quale delle due categorie appartiene. L’aneddoto delle ragazzine l’ho rubato un po’ a Guarini e un po’ a Durante, perché a entrambi, anche se Ruggero ora sta con il suo amico Mimì Rea, piacerà – lo so per certo – la frase di Alfonso: “La vita è un’affacciata di finestra”).