di Antonio Medici
Si è dipanata lungo i crinali appenninici che corrono tra la Campania e la Basilicata una bella e fruttuosa alleanza tra studiosi, coltivatori, allevatori e casari. La sintesi di conoscenze, sperimentazioni e produzioni è tutta nel neologismo gastronomico “carciocacio”, carciofo e formaggio. Ed il carciofo col formaggio c’entra come il cavolo a merenda, almeno in apparenza. Dal carciofo bianco di Pertosa, presidio Slow Food, gli studiosi del Consiglio per la Ricerca e la Sperimentazione in Agricoltura di Bella, in provincia di Potenza, hanno tirato fuori un caglio vegetale impiegato, poi, per la produzione di formaggio. Non che ci sia fermati al caglio, in verità. Il “carciocacio” è prodotto con latte “naturalmente arricchito” proveniente da allevamenti che, usando un inglesismo, potremmo definire “cheese oriented”, allevamenti dove l’alimentazione naturale dei bovini è studiata per produrre il latte più adatto ad essere trasformato in formaggio, ricco in grassi e con una giusta carica batterica.
Una bella sfida in un contesto in cui le big dell’industria alimentare hanno corrotto molti allevatori, inducendoli ad adeguarsi agli standard di produzione di latte destinato al consumo, con caratteristiche profondamente diverse da quelle necessarie alla produzione di un buon cacio.
Ma com’è questo “carciocacio”? L’abbiamo provato in occasione della presentazione che se ne è fatta a Benevento, qualche giorno fa, al bistrot “Dionisio”, lungo il corso principale della città. Una caciotta dal gusto complesso, potremmo dire. Seducente al primo impatto, per la corposità morbida ed avvolgente dei grassi e la discreta acidità, affascinante nel finale quando il carciofo afferma la propria identità con una persistente nota amara. Il profumo è prevalentemente vegetale.
Il carciocacio è un formaggio di breve stagionatura, 20 giorni, presentato in forme da mezzo chilo. Intrigante e da sperimentare l’abbinamento con i vini, per via dell’amaro finale. Spumante di falanghina, falanghina ed infine piedirosso non hanno convinto sino in fondo. Un frizzantino abboccato come il Gragnano probabilmente esalterebbe il formaggio ed il palato.
Al termine della presentazione, la rituale cena nella bellissima antica sala del ristorante Dionisio, dello stesso omonimo titolare del bistrot, pur merita una nota.
Cucina che ostenta umiltà, rinunciando a fastidiose e modaiole velleità da master chef. Il baccalà è immancabile, in ogni stagione. In questo caso annegato in una delicata vellutata di finocchi. Ed in ogni stagione Dionisio è capace di rielaborare, rinnovandolo, un primo di pasta lunga e crema a base vegetale. In questo caso si tratta di fusilli ricci con salsa di melanzana e mandorle. Ci spiega la particolare cura prestata per la cottura della melanzana. Il palato apprezza. In questo piatto, come nella sua versione invernale, a base di pistacchi, è davvero piacevole il contrasto tattile tra la pastosità morbida della salsa e il croccante della mandorla.
Appena meno appaganti i ravioli con ricotta di bufala, pomodori infornati e pesto delicato. Il mix dei sapori appaga, un po’ meno qualche residuo di buccia pungente dei pomodori.
Sulle carni Dionisio, figlio d’arte, non fallisce. Lo stinco di manzo in salsa di aglianico, pur fuori stagione, è ottimo e si fa fatica a rinunciarvi nonostante la suggestione dell’estate e la temperatura corporea, indotta anche dall’ottima selezione di etichette Fontanavecchia servite in abbinamento, sconsiglino finanche di impugnare forchetta e coltello.
Accoglienza calda, servizio professionale e non invadente.
Dionisio Ristorante
Via Alfonso De Blasio, 3
Benevento
0824 43734