di Giancristiano Desiderio
Il mio amico Antonio Violante, detto Zinetti, sostiene che il Brasile non è più il Brasile e se il Brasile non è più il Brasile non si deve neanche più chiamarlo Brasile. Una sorta di nichilismo calcistico. Ha ragione?
Il mio amico Mario Sconcerti sostiene che il Brasile non sa più ballare e ha subito una mutazione che lo ha condotto sempre più a somigliare al calcio nostrano che è più atletico, pragmatistico e razionalistico. Una sorta di trasformazione calcistica. Ha ragione?
Hanno ragione entrambi. Il Brasile è così cambiato nel tempo da non essere più se stesso. L’ultimo grande Brasile è stato quello del 1982 che per fortuna ho fatto in tempo a vedere, apprezzare, amare e soffrire. Dopo il Brasile di Zico e Falcao, Socrates e Junior è iniziata un’altra storia che ha portato il calcio brasiliano a perdere la sua essenza: la danza. E’ questo un carattere che non si insegna in nessuna scuola calcio del mondo. Nasce spontaneamente se i fanciulli e i ragazzini hanno la possibilità di giocare a pallone sulla spiaggia. Qui il gioco del pallone ha qualcosa di primordiale e il gioco è ancora un rito, un mito, una creazione in cui il giocatore non è un calciatore ma elemento costitutivo del gioco. Il calcio come rito è una danza e i calciatori brasiliani hanno sempre danzato servendosi del pallone e servendolo con maestria. Con questo calcio danzato, che non si insegna ma si impara – come tutte le cose più vere e serie e ironiche della vita -, sono venuti al mondo giocatori che ci hanno dato un mondo: Pelè, Jairzinho, Gerson, Tostao, Rivelino per stare al Brasile del 1970 che Mario Sconcerti, come un tempo mio padre, dice essere stato il più bello e il più forte di sempre. Il calcio danzato brasiliano finisce quando si europeizza e si ritiene di poter insegnare ciò che non si insegna. Finisce quando alla spiaggia si sostituisce la scuola. Ah, la scuola! Che parola equivoca e presuntuosa è diventata questa parola.
Il calcio e la filosofia sono la stessa cosa. Nascono, vivono e muoiono soltanto nel mondo. Guardatevi dall’idea malsana e terribile e sciocca di scolarizzare il mondo (quasi credo che non sia un caso che il c.t. del Brasile si chiami Scolari, pur con il rispetto dovuto a uno che ha dimostrato di saperla lunga). Come la filosofia abita il mondo e non le accademie, così il calcio abita le piazze, i campetti, gli oratori. In Brasile la spiaggia. Il calcio trasferito nella scuola calcio è la fine del suo gioco. Come dalle accademie non nascono i filosofi ma solo i professori, così dalle scuole calcio non nascono i giocatori ma solo i professionisti, i tecnici, i cartellini, i presuntuosi. I più grandi filosofi non sono mai nati nelle scuole. I più grandi poeti non sono mai nati nelle scuole. I più grandi giornalisti non sono mai nati nelle scuole. I più grandi giocatori non sono mai nati nelle scuole. E non nasceranno nelle scuole. Una buona scuola calcio è una strada per avviare il calciatore a giocare nelle squadre ma non è un metodo per creare il giocatore che nasce in un altro luogo: nel libero confronto con se stesso e gli altri ragazzini. Il genio non nasce dalla scuola ma dalla vita. Una volta George Best giocò contro Cruyff. Due grandissimi. Best dribblò con un tunnel l’olandese volante. Poi si fermò. Prese il pallone in mano e lo diede a Cruyff dicendogli: “Tu sei il migliore perché io non ho tempo”. Il calcio è una grande scuola di vita che una scuola calcio può distruggere con supponenza.
Il calcio non si produce ma si crea. La produzione, diversamente dalla creazione, livella. In basso. La Coppa Rimet aveva un pregio che derivava dai tempi che per il calcio erano relativamente moderni (in fondo, a quel tempo il calcio era ancora fanciullo): metteva in relazione tra loro diverse filosofie calcistiche che poi erano diversi popoli e genti diverse. Oggi i Mondiali – e il nome qui è rivelatore – non mettono in relazione un bel niente perché le squadre si somigliano un po’ tutte. I Mondiali sono un campionato internazionale che dura un mese. Non si riesce più a distinguere il calcio europeo dal calcio sudamericano, il calcio africano dal calcio asiatico. Il calcio si è mondializzato e il Mondiale – cosa davvero molto, ma molto diversa dalla nobile Rimet – ne è la sua manifestazione più veritiera. Il calcio mondiale è un grande omogeneizzato. Una pappa. Tutti un po’ si equivalgono. Forse, nel calcio il principio di eguaglianza si è maggiormente affermato e, contrariamente al credo universale, l’eguaglianza fuori dal suo giusto posto – proprio come la scuola – non è una bella cosa. Non è un bello spettacolo.
Cosa ne è allora del Brasile che non danza più? E’ diventato una squadra abbastanza normale. Una di quelle che gioca prima di tutto per non perdere e che gioca con calciatori che non sono dei brocchi ma neanche delle stelle. Una mediocrità democratica, insomma. Tuttavia, siccome l’anima non la si può mai perdere del tutto, ogni tanto nel Brasile di oggi si può vedere il Brasile di ieri. Un passaggio che illumina e apre. Un controllo elegante fatto con disinvoltura. Un uno-due fatto come in riva al mare. Una finta che lascia sul posto l’avversario. Il pallone accarezzato più che calciato. Si tratta di momenti, attimi, lampi in cui i giocatori verdeoro sembra recuperino una loro innata leggerezza che li fa danzare e apparire come ciò che non sono più ma che vorrebbero ancora essere o che sentono di essere. Come se Pelè fosse ancora in mezzo a loro. Il Brasile oggi – caro Antonio, caro Mario – non lo si vede, si intuisce. E’ una consolazione, lo so. Ma ognuno di noi sente di essere chiamato da qualcosa o qualcuno che dà senso al giorno e alla notte. E’ da quella intuizione che dipende il futuro del calcio. Non solo della danza brasiliana, ma anche del calcio “inglese”. Fateci caso: il Brasile gioca quasi a intervalli, a fasi alterne, a intermittenza. Appare e scompare. E’ un ricordo. O una dimenticanza. Una rimembranza. Come se il gioco che si portano dentro quei giocatori emergesse per un attimo al di sopra della mediocre, utilitaristica e invidiosa eguaglianza che tutti ci domina e ammorba.