di Giancristiano Desiderio
L’Inghilterra ci ha ingannati, la Costa Rica ci ha ridimensionati, l’Uruguay ci ha stroncati. Questo è il calcio in campo. Ciò che conta. Il resto è chiacchiera. E’ chiacchiera la recriminazione. E’ chiacchiera l’espulsione di Marchisio. E’ chiacchiera il cattivo arbitraggio. E’ chiacchiera il morso di Suarez. Voi ricordate un tiro in porta – uno! – dell’Italia? Se si gioca per pareggiare si può perdere. Tutto molto semplice. Tutto vero.
Il morso dell’Uruguay ci butta fuori dal Mondiale brasiliano. Uno dei più brutti per l’Italia che nutre sempre grandi speranze ma non esprime mai un gioco all’altezza delle sue attese. E alla fine ci si aggrappa all’arbitro, alla cattiveria dell’avversario, al destino che come si sa è sempre cinico e baro. Ora si discuterà del fallo di Marchisio e dell’espulsione che ha cambiato la partita. Si discuterà del Pistolero che morde la spalla di Chiellini. Allora, diciamola tutta: Marchisio fa un fallo brutto e inutile sotto gli occhi dell’arbitro il quale ha deciso di espellerlo. Poteva richiamarlo e basta? Poteva. Ma ha scelto il cartellino rosso in modo legittimo. Il giudizio dell’arbitro non è arbitrario. Se poi la sua scelta ha cambiato la partita, allora, si dica che a cambiarla è stata proprio l’Italia che ha scelto di giocare di rimessa, aspettando, senza giocare. Il morso di Suarez è pura emotività e ribellione alla marcatura di certo non gentile e tenera di Chiellini, ma è solo un morso. Possiamo dire di aver perso perché Suarez ha morso Chiellini? L’Italia ha perso perché l’Uruguay se l’è mangiata. I sudamericani hanno fatto la loro partita. Hanno giocato un primo tempo risparmiandosi e puntando sui secondi quarantacinque minuti. L’Uruguay ha seguito il suo istinto, i suoi piedi, il suo cuore e ci ha dato sotto. Cattivi? Cattivi. Ma meglio cattivi che falsi buoni. Noi siamo falsi buoni.
Per vincere bisogna tirare in porta. Per tirare in porta bisogna costruire gioco. Per costruire gioco bisogna almeno volerlo. La Nazionale gioca sempre al risparmio. Punta più sulle debolezze altrui che sulle proprie forze. Spera che gli altri perdano, piuttosto che volere la propria partita. Osanna i giocatori quando fanno una puzza che viene dipinta come una grande giocata, scopre di avere dei brocchi quando gli avversari ci fanno vedere come si gioca a pallone con piedi, cervello e cuore. Alla fine resta la solita Italia dal gran cuore. Ma in questo gioco contano i piedi. Chi non sa giocare bene è bene che vada a casa. Almeno ci risparmiamo gli spettacoli pietosi delle sfilate che festeggiano una qualificazione stiracchiata per il rotto della cuffia. Giudizio severo? Severo ma onesto.
Naturalmente, dal giorno dopo c’è il processo. Siamo fatti così: o festeggiamo o processiamo. Abbiamo un pessimo rapporto con l’equilibrio, la ragionevolezza, la misura. Il processo mira a trovare un colpevole sul quale addossare tutte le colpe. Quelle colpe che nessuno avrebbe visto e avrebbe menzionato se avessimo vinto. O la festa o la forca. Questo è il nostro modo di giudicare il calcio e non è molto diverso dal modo italiano di giudicare la vita pubblica e la storia nazionale. Le cose reali interessano poco, quasi come se non fossero reali. Ma non ci salveranno né le feste né le forche. Ci vorrebbe un po’ di umiltà per generare la tendenza a vedere la realtà per quella che è. Si vedrebbe, ad esempio – per riportare lo sguardo in campo -, che l’Italia ha concluso la partita senza attaccanti. Proprio così: non c’era in campo neanche uno di quei giocatori che per statuto devono buttarla dentro. Tanto che Buffon, ossia uno di quei giocatori che per statuto non deve farla entrare, si è sentito in diritto, e in diritto per disperazione, di giocare nell’area di rigore avversaria per fare il centravanti che non abbiamo mai avuto. Scendiamo in campo prima di tutto per non prenderle e invece di elencare le nostre occasioni gol (inesistenti) facciamo il catalogo delle occasioni gol degli avversari che abbiamo limitato. Il difensivismo ci uccide nella testa e se gli altri giocano, con le brutte o con le cattive, ci meravigliamo. Come se gli altri non dovessero giocare, non dovessero aver voglia di affermarsi, di mordere. Il nostro gioco è l’esaltazione del non-gioco. Un disastro. Siamo un fallimento culturale e poi calcistico.